recensione di Mattia
Sangiuliano
“Così fu Auschwitz”,
Primo Levi, Torino, Einaudi (2015), p.245, 13€.
Il dizionario Devoto Oli
della mia libreria, alla terza definizione dedicata al lemma “germe”,
quella figurativa, dice: «Quanto richiede e racchiude la possibilità
di uno sviluppo; origine, principio»; tra i sinonimi: radice,
premessa, causa. L'enciclopedia Treccani specifica: «In
germe, locuz. usata con riferimento a cosa che sta per nascere,
che è ancora in uno stato di abbozzo ma promette di assumere
consistenza, forma definita e concreta»[1].
“Così fu Auschwitz”
potrebbe essere definito il primo effettivo non-libro dello scrittore
piemontese Primo Levi, il germe stesso della sua prima opera; alla
base si trova il fondamento scientifico, dato dalla sua professione
di chimico unito al bisogno di comunicare, un senso del dovere nei
confronti del dramma di quell'esperienza oltre i confini dell'umanità
in quell'universo di abbruttimento dell'esperienza umana: il lager.
Il sottotitolo del libro,
“Testimonianze 1945-1986” raccoglie la definizione precisa della
materia che lo sottende e la modalità di diffusione che era
nell'intenzione originaria dello stesso autore: la testimonianza;
tutti i documenti riprodotti in questo volume sono il frutto dei
quattro decenni che videro l'impegno di Levi attivo nel portare la
sua esperienza del lager all'interno della società, nelle aule dei
tribunali per i processi contro i criminali nazisti e di smuovere –
più in generale –, attraverso i suoi numerosi interventi, le
coscienze nei confronti della storia conclusa ma non del tutto
compresa, nel suo bagaglio di immagini e di significati.
Un libro che, con le sue
ripetizioni, con il suo linguaggio, attesta la lucidità e il bisogno
di chiarezza che portarono Levi a non far morire l'esperienza della
Shoah nel silenzio o nelle celebrazioni eucaristiche degli anni
successivi la liberazione; interrogandosi e domandandosi, tornando
più e più volte a quell'esperienza, per un inesausto bisogno di
chiarezza revisionando, prima di tutto, aggiornando continuamente –
e correggendo – il suo vissuto, rendendo possibile il più grande
servizio che si possa rendere alla memoria evitandone il declino, la
corruzione, la dissoluzione, dunque la morte.
“Così fu Auschwitz”
raccoglie al suo interno il fondamentale “Rapporto
sull'organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento
per Ebrei di Monowitz (Auschwitz - Alta Slesia)” (1945) scritto
a quattro mani da Primo Levi e da Leonardo De Benedetti, compagno di
prigionia e amico – che compare più volte in altri scritti –, su
richiesta dei sovietici del campo di Katowice (Polonia) a seguito
della liberazione di Auschwitz. Il secondo capitolo – o documento,
sarebbe meglio dire – è la “Relazione del dott. Primo Levi”
(1945), mai pubblicata prima d'ora, «è una delle testimonianze più
antiche di Levi, anzi con tutta probabilità la prima che egli abbia
rilasciato dopo il suo rientro a Torino (19 ottobre 1945)»[2].
Seguono poi le deposizioni, le testimonianze ai processi, le
riflessioni, gli interventi e gli importanti articoli in cui lo
scrittore cercò di mostrare e chiarire, in quarant'anni di vita, la
sua esperienza per vincere l'errore delittuoso del silenzio, come
scrive Levi nella “Lettera alla figlia di un fascista che chiede
la verità” (1959).
Primo Levi è stato
chimico, storico – non a caso pongo in secondo luogo questa
vocazione, più che professione –, scrittore, sopravvissuto e
testimone ma anche, se pur brevemente, partigiano e resistente –
anche nel lager, riuscendo a sopravvivere alla degradazione imposta
dal regime della macchina nazista –; uomo dall'alto senso del
dovere, critico nei confronti della storia, la sua storia
innanzitutto, e della società, ha condotto la sua vita all'insegna
di quella missione che lo voleva attivo dal basso per ostacolare e
vincere quella deriva della memoria che, silenziosamente, voleva
insidiare e rompere gli argini di un'umanità già duramente colpita.
“La Relazione è
un resoconto in cui, sull'esercizio di memoria inteso a recuperare
nomi e vicende personali, s'innesta un lavoro di ricerca dei fatti, e
di deduzione logica a partire dai fatti stessi, che si appoggia a sua
volta sull'esame critico di informazioni raccolte da Levi in momenti
e in ambienti diversi: ad Auschwitz dopo la liberazione del Lager,
durante l'avventura del ritorno attraverso l'Europa, nella città di
Torino poco dopo il rientro, da precoci scambi di lettere con ex
compagni di deportazione come lui sopravvissuti”[2].
“Così fu Auschwitz”
è inoltre un articolo dello scrittore torinese, contenuto in questo
libro, che viene a dare il titolo alla stessa opera. In questo
articolo del 1975 Levi propone importanti riflessioni, il frutto
germinato della sua attività di testimone in lotta contro la deriva
della memoria: «Ora siamo ridotti a qualche decina: forse siamo
troppo pochi per essere ascoltati, ed inoltre abbiamo spesso
l'impressione di essere dei narratori molesti; talvolta, addirittura,
si avvera davanti a noi un sogno curiosamente simbolico che
frequentava le nostre notti di prigionia: l'interlocutore non ci
ascolta, non comprende, si distrae, se ne va e ci lascia soli.
Eppure, raccontare dobbiamo: è un dovere verso i compagni che non
sono tornati, ed è un compito che conferisce un senso alla nostra
sopravvivenza. A noi è accaduto (non per nostra virtù) di vivere un
esperienza fondamentale, e di apprendere alcune cose sull'Uomo che
sentiamo necessarie divulgare»[3].
[1]http://www.treccani.it/vocabolario/germe/
[2] Levi Primo; Così fu Auschwitz, Torino, Einaudi, 2015, p. 31.
[2] Levi Primo; Così fu Auschwitz, Torino, Einaudi, 2015, p. 31.
[3] Ibid, p. 114.
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