recensione di Mattia Sangiuliano.
"In un'altra lingua", Ann Goldstein e Domenico Scarpa, Torino, Einaudi, collana Lezioni Primo Levi (2015), p. 213, 21€.
Tradurre in una lingua
più accessibile una tematica – e un universo – altrimenti
irraggiungibile. Questa è stata la sfida di Primo Levi che ha
cercato di comunicare la sua esperienza oltre la superficie
del lager. Una sfida raccolta in quello che potrebbe essere definito
una sorta di dialogo tra Domenico Scarpa e Ann Goldstein,
traduttrice – anche di questo testo, presentato nella solita forma
bilingue: con versione inglese a fronte, per la collana Lezioni Primo
Levi di Einaudi – e curatrice del volume complessivo in lingua
inglese dell'opera di Primo Levi, Complete Works, presso
l'editrice Liveright.
La lingua della poesia,
la lingua della chimica, la lingua di un montatore di gru e lo
yiddish di un gruppo di partigiani ebrei sovietici o, ancora, la
lingua del lager: la babele e la commistione di linguaggi in un
universo frammentario – e volutamente frammentato –, disgregato.
La perdita della lingua, la privazione del linguaggio, l'afasia,
l'impossibilità di parlare e/o di comunicare erano le prime fasi
della degradazione che doveva subire chi entrava nel lager. Levi non
è stato solo uno scrittore ma un traduttore, della sua stessa
esperienza e di nuovi modi di esporre la realtà. L'intenzione di
tradurre in parole, con la massima chiarezza possibile, la torbidità
sotto la superficie increspata di quella tenebra insondabile del
lager, è stata l'opera di gran parte della sua vita.
L'opera – nonché
l'attività – di Primo Levi è attraversata dall'intenzione di
rendere con la massima chiarezza la sua esperienza del lager, già
dalla liberazione, in qualcosa di non astratto ma che potesse rendere
chiaro all'ascoltatore cosa sia stato effettivamente l'universo
concentrazionario, calandolo in quella prigionia. Quale processo di
disumanizzazione lo sottendesse, come la perdita stessa del
linguaggio dei prigionieri fosse il primo passo verso la dissoluzione
dell'individuo, dunque la sua distruzione. La tematica in questione,
il modo di esporre e rendere chiaro questo tipo di violenza ha
accompagnato la trattazione di Levi della questione di Auschwitz ma
più in generale il modo di scrivere e di porsi di fronte al
pubblico. Qualunque fosse l'oggetto.
La corruzione della
lingua si impone nel Lager attraverso molteplici vie:
dall'impossibilità dei prigionieri di poter usare la lingua natia
imponendo loro il tedesco, un tedesco però anch'esso corrotto,
gergale, rozzo, sbrigativo e rude, fatto per lo più di suoni cui il
neo-imprigionato deve reagire per intuito, mosso dal naturale istinto
alla sopravvivenza interpretando il comando gridatogli in faccia con
rabbia; è una lingua militare e burocratica, fatta di eufemismi e
traslitterazioni. L'impatto acustico, violento, è l'unico senso, in
cui il significante sovrasta il significato. Proprio attraverso la
lingua, Levi: “non puntò sull'orrore dei campi di sterminio bensì
sulla loro assurdità” (p. 101), condizione di cui lo scrittore si
rese conto nel momento in cui ebbe l'impulso di ricordare, parlando
con il detenuto Pikolo, quasi per contrasto, l'Inferno di Dante
dunque “sorpreso dall'aver trovato mediocrità morale là dove si
aspettava integerrimo sadismo” (p. 105).
Il linguaggio poliedrico
di Levi si rintraccia anche quando parla della sua professione di
chimico, “A osservare oggi l'opera intera si direbbe che Levi le
abbia affidato questo implicito messaggio: ho scritto Se questo è
un uomo perché ero un chimico,
non perché fossi uno scrittore” (p. 109) una posizione che, come
nota lo stesso Scarpa, riprendendo un articolo del 1980, Ex
chimico, in cui Levi parla del
suo mestiere, lo scrittore riprende esplicitamente alcune suggestioni
dell'ultimo canto del Paradiso dantesco – sorta di punto fisso, per
Levi –, concentrandosi però sulla terminologia usata dal
fiorentino, anch'egli uno speziale quindi una sorta di collega di
Primo Levi: “la bellezza della visione suprema si versa goccia a
goccia” (p. 113), si distilla,
espressione del vocabolario chimico, lessico specialistico elogiato
da Levi per la sua pregnanza evocativa, rasente il sublime.
Così
come ha sondato la zona grigia
del lager, Levi ha esplorato forme e modelli espressivi nuovi,
trasponendoli nella lingua letteraria. Italo Calvino, che di
innovazione linguistica e fantasia narrativa non era certo digiuno,
riconobbe all'ex deportato il suo essere stato un precursore
avventuratosi attraverso i “nuovi mondi” offerti dalla fantasia e
dall'uso – e commistione – di nuovi linguaggi. Sempre Calvino, in
una lettera al collega, evidenzierà nella scrittura di Levi, in
certi suoi scritti fantastici in particolar modo, quella suggestione
narrativa indissolubilmente legata all'elemento scientifico di base;
un Primo Levi capace di unire e far convivere i due elementi: scienza
e lettere.
Domenico
Scarpa riprende il libro precedente della collana Lezioni Primo Levi,
di Anna Bravo, conclusosi con una riflessione sulla
democraticità della lingua dello scrittore piemontese. Scarpa
scrive: “è questa essenzialmente l'utilità sociale dello
scrittore-traduttore: trovare modi per aumentare la realtà
comprensibile, pronunciabile, descrivibile, narrabile” (p. 129).
Scavare nella realtà, non solo in quel lager in cui le parole
assumono un significato altro e più profondo, ma nel materiale
linguistico; interrogarsi sulla lingua stessa esaurendo e
sperimentando le forme espressive è stata una sponda della ricerca
di Levi, traducendo in un'altra lingua, poiché la rappresentazione
della realtà non sempre coincide nell'equazione matematica
cosa-parola, alla scoperta di un significato più profondo della
parola, indissolubilmente legata alla carica emotiva propria che la
impregna e arricchisce.
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