domenica 22 novembre 2015

“In un'altra lingua”, Primo Levi: scrittore e traduttore.

recensione di Mattia Sangiuliano.

"In un'altra lingua", Ann Goldstein e Domenico Scarpa, Torino, Einaudi, collana Lezioni Primo Levi (2015), p. 213, 21€.


Tradurre in una lingua più accessibile una tematica – e un universo – altrimenti irraggiungibile. Questa è stata la sfida di Primo Levi che ha cercato di comunicare la sua esperienza oltre la superficie del lager. Una sfida raccolta in quello che potrebbe essere definito una sorta di dialogo tra Domenico Scarpa e Ann Goldstein, traduttrice – anche di questo testo, presentato nella solita forma bilingue: con versione inglese a fronte, per la collana Lezioni Primo Levi di Einaudi – e curatrice del volume complessivo in lingua inglese dell'opera di Primo Levi, Complete Works, presso l'editrice Liveright.

La lingua della poesia, la lingua della chimica, la lingua di un montatore di gru e lo yiddish di un gruppo di partigiani ebrei sovietici o, ancora, la lingua del lager: la babele e la commistione di linguaggi in un universo frammentario – e volutamente frammentato –, disgregato. La perdita della lingua, la privazione del linguaggio, l'afasia, l'impossibilità di parlare e/o di comunicare erano le prime fasi della degradazione che doveva subire chi entrava nel lager. Levi non è stato solo uno scrittore ma un traduttore, della sua stessa esperienza e di nuovi modi di esporre la realtà. L'intenzione di tradurre in parole, con la massima chiarezza possibile, la torbidità sotto la superficie increspata di quella tenebra insondabile del lager, è stata l'opera di gran parte della sua vita.

L'opera – nonché l'attività – di Primo Levi è attraversata dall'intenzione di rendere con la massima chiarezza la sua esperienza del lager, già dalla liberazione, in qualcosa di non astratto ma che potesse rendere chiaro all'ascoltatore cosa sia stato effettivamente l'universo concentrazionario, calandolo in quella prigionia. Quale processo di disumanizzazione lo sottendesse, come la perdita stessa del linguaggio dei prigionieri fosse il primo passo verso la dissoluzione dell'individuo, dunque la sua distruzione. La tematica in questione, il modo di esporre e rendere chiaro questo tipo di violenza ha accompagnato la trattazione di Levi della questione di Auschwitz ma più in generale il modo di scrivere e di porsi di fronte al pubblico. Qualunque fosse l'oggetto.

La corruzione della lingua si impone nel Lager attraverso molteplici vie: dall'impossibilità dei prigionieri di poter usare la lingua natia imponendo loro il tedesco, un tedesco però anch'esso corrotto, gergale, rozzo, sbrigativo e rude, fatto per lo più di suoni cui il neo-imprigionato deve reagire per intuito, mosso dal naturale istinto alla sopravvivenza interpretando il comando gridatogli in faccia con rabbia; è una lingua militare e burocratica, fatta di eufemismi e traslitterazioni. L'impatto acustico, violento, è l'unico senso, in cui il significante sovrasta il significato. Proprio attraverso la lingua, Levi: “non puntò sull'orrore dei campi di sterminio bensì sulla loro assurdità” (p. 101), condizione di cui lo scrittore si rese conto nel momento in cui ebbe l'impulso di ricordare, parlando con il detenuto Pikolo, quasi per contrasto, l'Inferno di Dante dunque “sorpreso dall'aver trovato mediocrità morale là dove si aspettava integerrimo sadismo” (p. 105).

Il linguaggio poliedrico di Levi si rintraccia anche quando parla della sua professione di chimico, “A osservare oggi l'opera intera si direbbe che Levi le abbia affidato questo implicito messaggio: ho scritto Se questo è un uomo perché ero un chimico, non perché fossi uno scrittore” (p. 109) una posizione che, come nota lo stesso Scarpa, riprendendo un articolo del 1980, Ex chimico, in cui Levi parla del suo mestiere, lo scrittore riprende esplicitamente alcune suggestioni dell'ultimo canto del Paradiso dantesco – sorta di punto fisso, per Levi –, concentrandosi però sulla terminologia usata dal fiorentino, anch'egli uno speziale quindi una sorta di collega di Primo Levi: “la bellezza della visione suprema si versa goccia a goccia” (p. 113), si distilla, espressione del vocabolario chimico, lessico specialistico elogiato da Levi per la sua pregnanza evocativa, rasente il sublime.

Così come ha sondato la zona grigia del lager, Levi ha esplorato forme e modelli espressivi nuovi, trasponendoli nella lingua letteraria. Italo Calvino, che di innovazione linguistica e fantasia narrativa non era certo digiuno, riconobbe all'ex deportato il suo essere stato un precursore avventuratosi attraverso i “nuovi mondi” offerti dalla fantasia e dall'uso – e commistione – di nuovi linguaggi. Sempre Calvino, in una lettera al collega, evidenzierà nella scrittura di Levi, in certi suoi scritti fantastici in particolar modo, quella suggestione narrativa indissolubilmente legata all'elemento scientifico di base; un Primo Levi capace di unire e far convivere i due elementi: scienza e lettere.

Domenico Scarpa riprende il libro precedente della collana Lezioni Primo Levi, di Anna Bravo, conclusosi con una riflessione sulla democraticità della lingua dello scrittore piemontese. Scarpa scrive: “è questa essenzialmente l'utilità sociale dello scrittore-traduttore: trovare modi per aumentare la realtà comprensibile, pronunciabile, descrivibile, narrabile” (p. 129). Scavare nella realtà, non solo in quel lager in cui le parole assumono un significato altro e più profondo, ma nel materiale linguistico; interrogarsi sulla lingua stessa esaurendo e sperimentando le forme espressive è stata una sponda della ricerca di Levi, traducendo in un'altra lingua, poiché la rappresentazione della realtà non sempre coincide nell'equazione matematica cosa-parola, alla scoperta di un significato più profondo della parola, indissolubilmente legata alla carica emotiva propria che la impregna e arricchisce.

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