di Mattia Sangiuliano
“La scena l'abbiamo vista
tutti, migliaia di volte. Eppure non smettiamo di guardarla.”
Belpoliti Marco, L'età dell'estremismo (dal capitolo
Nero sulle Torri –
p.83)
13.11.2015
Venerdì
sera, siamo a cena in un pub della zona. Non in centro, appena fuori,
sulla strada comunale tra un modesto comune e la frazione di una più
grande città vicina. Uscendo sulla strada la nebbia avvolge il
benzinaio dirimpetto al locale; voltandosi la coltre di nebbia satura
l'ampio parcheggio ingombro di auto depositando sulla carrozzeria il
frutto gravido di milioni di gocce d'acqua condensata. È un freddo
umido che ti congela a poco a poco, incomincia dall'esterno e a poco
a poco ti penetra dentro, nelle ossa. Un gelo simile, molto simile,
lo proveranno milioni di persone che, per lo più involontariamente,
verranno a conoscenza dei fatti che hanno turbato un analogo venerdì
sera a Parigi, dall'altra parte d'Europa.
Siamo
seduti al tavolo del pub, pizza margherita ormai divorata e birra
media bionda alla spina (una lager)
ridotta a un dito giallognolo sul fondo del bicchiere. Un'amica della
mia ragazza, seduta alla mia sinistra, scorre la home di facebook sul
suo smartphone. Sta cercando di approfondire qualcosa. Alza lo
sguardo dai cristalli del piccolo schermo del dispositivo apple e mi
guarda, in quel momento dice: “C'è stato un altro attentato a
Parigi”. È l'irruzione della tragedia, seppur edulcorata e
filtrata, nella quotidianità, tanto più drammatica quanto inattesa
ma solo a patto che ci si fermi un attimo a soppesarla; l'urto non si
verifica, è un colpo abbastanza forte, ma la sensibilità accuserà
dolori e contusioni solo dopo, a mente fredda.
Ci
si ferma a parlare un attimo. Due parole. Qualcosa di circostanza: “È
l'Isis vero?”, “È stato rivendicato?”, “Ci sono morti o
feriti?”. Risposte affermative su tutta la linea. È solo una
parentesi di qualche secondo uno sparo prima della mezzanotte del
trentuno di dicembre. La conversazione cade quasi subito, non
continua, ci si distrae. La ragazza continua però a cercare
informazioni su internet e io, distrattamente, osservo le immagini
che scorrono sotto il tocco delle sue dita, sfioramento dopo
sfioramento, di notizia in notizia. Poi nulla. La mente vira
completamente su altre questioni; la strage – ancora non
esplicitamente definita come tale, bisognerà attendere lo sviluppo e
la conta delle vittime – viene accantonata da qualche parte nella
mia mente.
11.09.2001
Cosa
ricordo di quel giorno? L'attentato. Ma più che l'attentato in sé
forse le sequenze dello stesso, le riprese viste in diretta, le
stesse viste successivamente in più di un'occasione da ogni
angolatura possibile, in ogni commemorazione o rievocazione, tanto da
aver reso quasi impossibile la ricostruzione di quella sequenza
originaria; io, come tanti altri, ricordo perfettamente ciò che
stavo facendo quel martedì di settembre del 2001. Ricordo
soprattutto il disappunto di fronte a queste sequenze che mi
impedivano di guardare i miei programmi televisivi, eppure continuavo
a guardarle, non perché le ritenessi sorprendenti – i miei cartoni
erano di certo molto superiori per straordinarietà – ma per
qualcosa che quelle immagini si portavano dietro, per quella realtà
concreta, fonte di verità, veicolata da quell'inaspettata edizione
del telegiornale.
Ricordo
perfettamente l'attesa per guardare i cartoni animati del pomeriggio
con mio fratello, avevo nove anni io e sei lui, ricordo qualche
sequenza del telegiornale – mai visto a quell'ora –, mia madre al
telefono che ancora non si era accorta di nulla. Sullo schermo tutto
ci sembra normale. Le torri, l'America simbolo di potenza con quei
suoi due grattacieli; persino il fumo denso e maestoso che si alza
dal fianco di una torre ci sembra normale. Lo schianto di un aereo –
il secondo, ma lo scopriremo dopo e capiremo solo molto più tardi,
forse solo realmente in una quantità di tempo calcolabile
nell'ordine degli anni, il suo valore – soltanto un incidente.
Qualcosa di ordinario e distante. Due aspetti – ordinarietà e
distanza – capaci di alzare un muro, frapporre un filtro
polarizzante tra l'oggetto e l'occhio. L'incomprensibilità del fatto
passa attraverso queste due tematiche.
Mia
madre riattacca e torna da noi, capisce la non ordinarietà
dell'evento. Oggi non ci saranno i nostri cartoni, anche lei si ferma
a guardare il loop ossessivo delle sequenze e ad ascoltare le voci
concitate. Poi niente. Sarà tutto archiviato. Il giorno dopo, a
scuola, le maestre torneranno sull'argomento. Ciò che abbiamo visto
entrerà nella storia. Ma lì non ce ne possiamo rendere conto.
Neppure le maestre, forse, se ne rendono conto. Nessuno può rendersi
conto del nesso storia-tragedia nel momento presente in cui vive o,
anche, è solo spettatore.
L'11
settembre sarà impresso a fuoco nelle nostre menti come marchio
generazionale; una rottura parziale della routine, entrata
silenziosamente da una porta di servizio nelle nostre case e nelle
nostre vite: attraverso la televisione. Un simbolo di guerra dove la
guerra non dovrebbe esserci, in una città pulsante di vita e
indirettamente nella vita delle nostre case, tra i nostri affetti; il
crollo di un paradigma assieme alla potenza degli USA cadenzato dagli
istanti che accompagnano il contorcersi e l'agonia delle torri. La
tragedia ha dato spettacolo.
Frammenti
di due tragedie.
La
mente si raffredda. Analogie e differenze prendono corpo. Scrive
Primo Levi nel primo capitolo, intitolato La memoria
dell'offesa, della sua ultima
opera I sommersi e i salvati:
“La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace”.
Nulla di più vero, nulla di più attuale, a quasi trentanni dalla
pubblicazione di quella frase.
Nel
giro di un quindicennio, quattordici anni e qualche mese appena,
dall'attentato dell'11 settembre al WTC ci si ritrova in una
situazione analoga ma non combaciante; quattordici anni fa
l'informazione percepita casualmente dalle nostre TV per via
dell'interruzione dei programmi che stavamo guardando ci ha portato a
sospendere, di fatto, ogni nostra attività creando, almeno
momentaneamente la figura dello spettatore, introiettato nelle
sequenze del dramma dell'attentato – poche persone videro in
diretta lo schianto del primo boeing sulle torri, ma quasi tutti
videro lo schianto, o le riprese, del secondo velivolo abbattutosi
sulla città di New York. L'attentato dell'11 settembre ha prodotto
un cambio di rotta nelle modalità con cui l'informazione,
soprattutto di cronaca, viene raccolta dagli spettatori, per lo più
passivamente.
Con i
fatti di Parigi l'abitudine a venir bombardati passivamente da notizie cui
difficilmente si riesce a dare un'importanza gerarchica è venuta
meno; in molti hanno cercato di ristabilire attivamente un contatto
con i fatti di Parigi, cercando, selezionando, appagando la sete di
informazioni, percependo la gravità, ristabilendo un ordine
valoriale nella gerarchia dei fatti. Tutto questo si è svolto per lo
più nei luoghi pubblici, mediante smartphone, avendo percepito
qualche informazione parziale, spesso mutila, o attraverso il
passaparola con il proprio vicino. Tanto più la tragedia sembrava
complessa tanto più è divenuto necessario attingere a una rete più
vasta di informazioni, per far chiarezza, allo scopo di ricomporre
tutti i frammenti.
Una
tragedia può essere quantificabile in costi, in danni materiali o
morali? Due tragedie possono essere paragonate tra loro?
Verrebbe
da dire che una tragedia possa essere quantificabile solo
subdolamente, in una maniera direttamente proporzionabile alle
conseguenze indirette e al ritorno che genera. La strumentalizzazione
cui una tragedia si presta può essere la carta moneta che ne
determina la quantificabilità. Efferatezza – metro di giudizio
qualitativo – e dimensione – metro quantitativo – sono unità
di misura che collaborano e permettono di unificare, nella sostanza,
due eventi altrimenti distanti. Come l'irrompere della tragedia sia
direttamente accelerato dalla velocità della disponibilità
dell'informazione, dipende dall'informazione – e il bisogno
naturale dell'individuo di ottenere informazioni – che si propaga
direttamente tanto più la gravità – e la percezione di gravità
di un fatto – sia grande e pervasiva, abbia in tal senso una
maggiore ricezione da parte dell'opinione pubblica, che ne viene
urtata.
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