di Mattia Sangiuliano
«Siamo stati capaci, noi
reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza?»
-Primo Levi, I sommersi
e i salvati.
Inizia un nuovo giorno e
la cronaca estera si tinge di rosso sulla striscia di Gaza. Una nuova
tornata di massacri – o dichiarati tali da fonti governative –
nei territori medio-orientali a cui corrisponde una nuova e
strisciante enfasi mediatica, sponda ai sanguinosi eventi che caratterizzano
regioni periferiche – o ritenute tali – del globo; l'informazione
fornisce un'eco edulcorante attorno a nuove carneficine giocando
sull'apparente lontananza di contesti geopolitici che – adagiati su
di una polveriera è dir poco – minacciano di detonare da un
momento all'altro, danneggiando irreparabilmente uno squilibrio che
rischia di ingoiare un'intera regione.
Ad ogni colpo di mortaio
nei pressi di Gerusalemme, ad ogni siluro sparato da un drone nella
striscia di Gaza, l'indignazione generale corre più veloce della
notizia in sé, il “massacro” o – a volte – del presunto
tale, la fa da padrone. Rimbalzano notizie ma ancor peggio pareri e
opinioni di personaggi di spicco, eminenze politiche in testa, che
non si esimono dal prendere una posizione. E l'opinione pubblica non è da meno.
Ad ogni colpo esploso, da
una parte o dall'altra, ad ogni vittima mietuta, indiscriminatamente
tra civili o soldati, la distanza da una possibile risoluzione del
conflitto sembra allontanarsi sempre di più.
Se la risoluzione
pacifica si allontana l'opinione resta, ed è spesso delle peggiori:
si tinge di rancore e di un fazionismo arroccato sempre più su
millantate posizioni ideologiche, quando non si sporca la bocca con
dichiarazioni pacifiste, già patteggiando però con la parte “più
pulita”. Volano parole e le opinioni sono sempre pronte, i social
si intasano dello stesso sgomento mentre l'indignazione generale
rigurgita parole sempre più lontane dal loro vero significato e dal
loro contesto; merito di chi le ha introdotte con espedienti retorici
ricucendole e rattoppandole di volta in volta, di contesto in
contesto, così come si allontana il senso della storia, se non la
Storia stessa, dall'esperire vivente svuotando di senso parole dette più o meno
inconsciamente.
Tornano spettri e nomi,
affibbiati come etichette, col favore della cronaca e della scarsa
lungimiranza – o retrospezione – a minare e a rendere possibile
un concreto giudizio critico, sull'attualità così come sulla storia. Il
“massacro” diventa “genocidio”, quella che era “vittima”
un “carnefice”, facendo chiudere la storia in un macabro cerchio,
preciso e circolare, digeribile da tutti.
Nell'annoso conflitto
arabo-istraeliano la posizione è netta: la sinistra è dalla parte
palestinese, così era già dagli anni '80, più precisamente dal 06
giugno 1982, allo scattare dell'operazione “Pace in Galilea”:
nome in codice dell'invasione a scopo preventivo del Libano, nel sud
della regione, ad opera dell'esercito israeliano sotto il primo ministro Begin e il ministro della difesa Sharon, con l'intento di
colpire il fulcro dell'OLP, l'Organizzazione per la
Liberazione della Palestina, attiva in territorio libanese e mirante
a non riconoscere il ruolo ma, soprattutto, la legittimazione dello
Stato d'Israele, vedendo anzi, nella costituzione dello stato
ebraico, la propaggine di interessi coloniali delle potenze
occidentali, penetrate con Israele, in Medio oriente: un'area di vitale importanza strategica ed economica se si
contestualizzano le vicende nello svilupparsi della divisione globale
in blocchi contrapposti.
Proprio nella divisione
in blocchi contrapposti, Israele viene a configurarsi come un
importante alleato statunitense, opposto alla predilezione del blocco
sovietico per l'alleanza con i paesi musulmani per il naturale
combaciare di intenti in chiave anti-occidentale.
L'OLP viene così a
configurarsi come un'organizzazione mirante alla liberazione “attiva”
dei territori occupati dagli israeliani riconoscendo l'uso della
“lotta armata” contro l'“imperialismo sionista”.
"Il testo della Carta
Nazionale Palestinese, così come emendata nel 1968, contiene
numerose clausole che richiamano l'esigenza della distruzione dello
Stato d'Israele."[1]
L'OLP fu fondata il 2
giugno 1964. "Le sue Dichiarazioni di proclamazione
dell'Organizzazione asserivano: "... il diritto del popolo arabo
palestinese alla sua sacra patria della Palestina e l'affermazione
dell'inevitabilità della battaglia per liberare le sue parti
usurpate e la sua determinazione a generare la sua effettiva entità
rivoluzionaria e a mobilitare le sue capacità e potenzialità oltre
che le sue forze materiali, militari e spirituali". All'epoca
Gaza e Cisgiordania non erano occupate da Israele, ma da Egitto e
Giordania. Per parti usurpate, si intendeva lo Stato di Israele."[2]
Come altre aree del
pianeta anche il Medio oriente è ben lontano dall'essere esente
dall'influsso – tipicamente occidentale [nda] – del negazionismo
di stampo olocaustico che qui però “ha goduto tuttavia di uno
sviluppo autonomo, alimentando e accreditando essenzialmente la
polemica antisionista”[3].
Il negazionismo arabo si
sviluppa in varie fasi che prendono le mosse dall'anno della
costituzione dello Stato d'Israele (1948), sino all'epoca recente, e
trovano nella sconfitta araba del 1967, nella guerra dei Sei giorni,
l'evento che ha contraddistinto il rafforzarsi e il radicalizzarsi
del pensiero negazionista nell'ambito del conflitto arabo-israeliano,
essenzialmente elaborato in chiave antiebraica; quello che sarà
dunque il cavallo di molti politici e rappresentanti di varie fazioni
arabe che fonderanno la loro protesta sull'intrusione del mondo
occidentale in Medio oriente:
“A tutt'oggi, tuttavia,
il riferimento alla dimensione coloniale e all'«egemonia
imperialistica occidentale» rimane un elemento centrale nel discorso
negazionista arabomusulmano. Le accuse rivolte contro la condotta
delle potenze alleate durante la Seconda guerra mondiale, alle quali
vengono imputati crimini pari o superiori a quelli commessi dai
nazisti , si riannodano al forte risentimento nutrito nei confronti
dei paesi occidentali. A questi, e alle loro politiche, è attribuita
la responsabilità dei problemi nei quali si trovano i popoli arabi.
Non di meno gli si imputa anche una deliberata sottovalutazione delle
violenze subite dalle popolazioni così come un cinismo
manipolatorio di cui la «leggenda dell'Olocausto» sarebbe parte
fondamentale, per tacitare anticipatamente ogni legittima
rivendicazione. […] L'insofferenza per il discorso occidentale
sulla Shoah si trasforma in rivendicazione della propria sofferenza e
in strumento di verbalizzazione della propria impotenza.”[4]
Su queste fondamenta si
erge un impianto di pensiero che “anche nel mondo arabomusulmano,
non nasce dall'ignoranza dei fatti. Si tratta piuttosto di una
rilettura selettiva, fortemente ideologizzata della storia,
soprattutto di quella derivante dalle fonti occidentali”[5].
Negli anni '80 prenderà
poi avvio il processo di traduzione e diffusione nel mondo arabo di
opere negazioniste di autori europei e americani, dando poi
dimostrazione di aver assorbito una gran quantità dei discorsi e
delle fondamentali tematiche negazioniste prodotte nell'Occidente:
“Le critiche si muovono
su due binari paralleli: da un lato si imputa al movimento sionista
la corresponsabilità nell'ideazione e nella promozione delle
violenze naziste contro gli ebrei tedeschi ed europei; dall'altro si
riafferma quello che è oramai divenuto una sorta di articolo di
fede, ovvero che il numero delle vittime è stato di molto esagerato
e che quanto meno una parte dei massacri e dei crimini tedeschi sono
una deliberata invenzione, ad uso strettamente propagandistico”[6].
Nel procedere degli
eventi prende forma un crescente riduttivismo generale che
vede la storia come materiale manipolabile, serie scorporabile di eventi che possono essere
offuscati, riassestati, cristallizzati per essere adattati ad un più agevole uso
strumentale. Gli appiattimenti e le semplificazioni diventano
manifeste nel linguaggio popolare di tutti i giorni, proprio da parte
di un occidente che guarda il Medio oriente attraverso un
cannocchiale rovesciato, per lo più schermato da una lente colorata,
tinta da venature ideologiche. La storia, anche se semplificata,
diventa ancora una volta strumento svuotato del suo significato. La
storia perde la sua memoria.
La sproporzione del
trattamento arbitrario divide la storia, ancora una volta, in vittime
e carnefici, sommariamente classificati – o declassati – a buoni
o cattivi.
La storia diviene
strumento di giudizio di massa per interi popoli: “massacro”
possibile ed eventuale diventa un fatto concreto, “massacro e
“genocidio” diventano sinonimi e, per una macabra logica interna
solo i “nazisti” compiono genocidi. Sono tutti nazisti, ecco il
mantra di chi spiega la storia in un sistema matematico e circolare:
se inizia con “genocidio” è più facile che finisca con
“genocidio”. Tornano i “nazisti”, senza svastiche, ma con la
stella di Davide sul braccio.
Si dimenticano le
atrocità del passato e che le stesse atrocità naziste sono state
scoperte molto dopo l'attuazione della “soluzione finale” e hanno
impiegato ancora molti anni prima di divenire storia accettata da
tutti; anche se il revisionismo negazionista asservito a logiche ideologiche sembra far supporre il contrario. Vengono alla mente le preoccupazioni dello stesso Primo Levi,
tutt'altro che infondate, quando già in apertura de “I sommersi e
i salvati”, quasi a voler parafrasare l'assunto nicciano del «è
assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio», non
poteva non constatare quanto la memoria umana sia “strumento
meraviglioso ma fallace”.
Dell'impegno di Levi come
scrittore, giornalista, uomo di cultura nonché testimone ebraico e
vittima del perverso meccanismo concentrazionario nazista, rimane la
sua attività di uomo che mosse una lucida critica all'appiattimento
della memoria storica che aveva per oggetto il periodo della seconda
guerra mondiale, in fattispecie l'orrore nazista; in anni in cui
l'oblio del ricordo e l'intensificarsi di frange negazioniste
sembravano, già nel 1982, strisciare con più insistenza nella
società civile di fronte all'inasprirsi del conflitto
arabo-israeliano:
“non è raro, sia nella
stampa generalista che in quella di sinistra, trovare quel parallelo,
respinto da Levi stesso, tra Israele (oppure Begin, Sharon) e il
nazismo, che era binomio non del tutto nuovo; per esempio su
«Repubblica» Miriam Mafai scrive che l'esercito israeliano «deporta
per destinazioni ignote»; similmente sull'«Unità» del 12 giugno
1982 un fondo del titolo Non è questa la via della pace si
afferma: «Israele intende occupare stabilmente il Libano
meridionale, “ripulito” dai palestinesi procedendo ad una guerra
di polizia e di annientamento. E siccome si ammette che ciò si
scontrerà con una guerra di difesa, si prevede che l'occupazione
cesserà solo con la “soluzione finale” della scomparsa fisica
del nemico»”[7].
Le parole che Levi lanciò
il 24 giugno 1982, diciotto giorni dopo l'avvio dell'invasione del
libano, constatando la sproporzione tra minaccia e risposta della legittima difesa,
non possono che risuonare come un accorato appello, privo di ogni
strumentale ideologizzazione; un appello alle generazioni di oggi che
sembrano aver perso il senso della storia, e per coloro che
potrebbero cambiarla irreparabilmente:
“Non ho vergogna ad
ammettere la mia lacerazione: il mio legame con questo Paese
sussiste, lo sento in certo modo come la mia seconda patria, lo
vorrei diverso da tutti gli altri Paesi; ma proprio per questo provo
angoscia e vergogna per questa sua impresa. Diffido del successo
ottenuto con l'uso spregiudicato delle armi. Provo sdegno per chi
frettolosamente assimila i generali israeliani ai generali nazisti,
ed insieme devo ammettere che Begin questi giudizi se li sta tirando
addosso. Vedo con sconforto rarefarsi la solidarietà dei Paesi
europei. Temo che questa iniziativa, spaventosamente costosa in
termini di sangue, infligga all'ebraismo una degradazione
difficilmente guaribile e ne inquini l'immagine. Avverto in me, non
senza sorpresa, un vincolo sentimentale profondo con Israele, ma non
con questa Israele”[8].
_____
Fonti:
[3]Claudio
Vercelli, Il negazionismo, Storia di una menzogna, Editori
Laterza, 2013 (p.142)
[4]Ibid.
(p.146)
[5]Ibid.
(p.147)
[6]Ibid.
(p.149)
[7]Andrea
Rondini, Anche il cielo brucia, Primo Levi e il giornalismo,
Quodlibet Studio, 2012 (p.93)
[8]Primo Levi,
Chi ha coraggio a Gerusalemme?, «La Stampa» 24 giugno 1982
(Opere, II, p. 1171-1172)
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