sabato 18 febbraio 2017

Split: fra thriller, horror e graphic novel

recensione di Mattia Sangiuliano


Una, nessuna o centomila? Le possibilità dell'essere umano sono infinite, ce lo ripetono – e ce lo ripetiamo, nda – da anni. Infiniti sono anche i nostri possibili atteggiamenti, i nostri modi d'essere quotidianamente, in pubblico o nella vita privata. La visione della molteplicità delle maschere possiamo adottare a seconda della circostanza, in base al contesto in cui ci troviamo, è lo standard dell'uomo che si dibatte tra moderno e post-moderno; se prima c'era qualcosa da nascondere sotto una superficie d'apparenza ora, similmente, si punta l'attenzione al modo d'apparire. Nulla di strano – è la società che ce lo chiede, baby. Sicuramente risulta essere più inquietante l'inversione dei termini, prendendo come punto fisso la maschera esteriore, la parvenza più immediata data dalla pelle, si cambia invece quello che c'è dietro: la personalità.

La mente umana è un meccanismo estremamente complesso, già agli albori della scienza quando la filosofia voleva conoscere e comprendere i meccanismi che governano la natura, i primi sapienti se ne sono resi perfettamente conto. Freud, padre della psicoanalisi, ha dato il suo contributo analizzando e definendo la tripartizione di ciò che definisce l'essere umano nella sua intima essenza attraverso la triade comprendente: Es, Io e Super-Io, ovvero i tre costrutti (istanze) che sottendono la salute mentale – e fisica – di una persona. L'equilibrio della mente umana è stabilito da fattori esterni e interni, cause endogene o esogene possono comprometterne la stabilità, né più né meno come avviene in tutti gli altri sistemi. Nella sua complessità la mente umana riesce ad attuare meccanismi di difesa capaci di proteggerla, tutelando lo stato e l'integrità del soggetto.

Nel nuovo film di M. Night Shyamalan, Split (2017), facciamo i conti con le centomila possibilità racchiuse dall'individuo. Il protagonista, che per semplicità chiameremo Kevin, interpretato da James McAvoy – il prof. Xavier senza titoli accademici e, ad un certo punto, senza capelli negli spinoff e sequel marveliani: X-Men, L'inizio, X-Men, Giorni di un futuro passato e X-Men Apocalisse, per intenderci – incarna le infinite possibilità racchiuse dall'essere umano letteralmente portate alle estreme conseguenze. La malattia è la condizione che innesca la vicenda e che connota il protagonista. Il disturbo dissociativo di identità, di cui Kevin porta i segni nelle sue ben 23 distinte personalità, è la molla in grado di scatenare le molteplici facoltà dell'essere umano, nonché un ingrediente capace di solleticare l'immaginario.

Alcune rappresentazioni del disturbo di personalità multipla vengono ricordate come vere e proprie pietre miliari, dal classico Dr Jeckyl and Mr Hyde sino al Fight Club scritto da Chuck Palanhiuk, poi divenuto un fortunatissimo film diretto da David Fincher, o andando indietro nel tempo Psycho di Hitchcock. Shyamalan aggiunge un qualcosa in più alla ricetta del suo Split: andando oltre il thriller, riuscendo a sbilanciarlo, nella seconda metà del film, lo declina verso il genere horror; il regista riesce a punzecchiare l'immaginario al punto giusto spingendo la base scientifica della trama verso un'affascinante e inquietante teoria evoluzionistica della specie rasente il superomismo. Come lascia intendere la dottoressa Fletcher che ha in cura Kevin: la chiave che consente di spalancare le porte delle infinite potenzialità umane è racchiusa nel nostro cervello.

Tra thriller e velato horror il regista sceglie l'ibridazione: la commistione dei due generi tende spontaneamente al contatto nella trama del suo film, giungendo ad uno scivolamento verso il secondo nella parte finale della pellicola. È un lenta e inevitabile tracimazione che non lascia scampo allo spettatore: tenendo ferme le premesse scientifiche introdotte dalla dottoressa Fletcher sulle infinite possibilità dell'essere umano e la sua capacità di modificare anche taluni aspetti e certe caratteristiche fisiche e morfologiche, in consonanza con il suo cambio di personalità, la distorsione della mente del protagonista prende una brutta piega con lo svolgimento dei fatti e con il dipanarsi della trama. Il disturbo è motore dell'azione, che invischia le tre malcapitate di turno in una macchina pronta a reclamare il suo tributo di sangue.

Il regista fa muovere i suoi personaggi in un ambiente fisico oscillante tra tetra claustrofobia e contesti urbani newyorkesi che trovano consonanze con gli aspetti psicologici dei vari soggetti. Il sostrato dei personaggi viene coltivato attingendo al campo della psicopatologia fornendoci alcune coordinate per entrare nella mente di Kevin e, attraverso provvidenziali flashback, nel toccante passato di una delle sue vittime; siamo testimoni degli esiti che il disturbo porta con sé e della manifestazione di un dramma comune che getta un ponte tra due figure altrimenti relegate agli antipodi. Da una scientifica tesi iniziale, si approda alla fine alla concreta materializzazione dell'incubo che emerge in tutta la sua – felice – virulenza e che ammicca ad un filone molto più vicino al genere fumettistico, di notevole impatto fotografico oltre che tematico.


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