recensione di Mattia
Sangiuliano
Una, nessuna o centomila?
Le possibilità dell'essere umano sono infinite, ce lo ripetono – e
ce lo ripetiamo, nda – da anni. Infiniti sono anche i nostri possibili atteggiamenti, i nostri modi d'essere quotidianamente, in pubblico o
nella vita privata. La visione della molteplicità
delle maschere possiamo adottare a seconda della circostanza, in base al
contesto in cui ci troviamo, è lo standard dell'uomo che si dibatte
tra moderno e post-moderno; se prima c'era qualcosa da nascondere
sotto una superficie d'apparenza ora, similmente, si punta
l'attenzione al modo d'apparire. Nulla di strano – è la società
che ce lo chiede, baby. Sicuramente risulta essere più inquietante
l'inversione dei termini, prendendo come punto fisso la maschera
esteriore, la parvenza più immediata data dalla pelle, si cambia
invece quello che c'è dietro: la personalità.
La mente umana è un
meccanismo estremamente complesso, già agli albori della scienza
quando la filosofia voleva conoscere e comprendere i meccanismi che
governano la natura, i primi sapienti se ne sono resi perfettamente
conto. Freud, padre della psicoanalisi, ha dato il suo contributo analizzando e definendo la
tripartizione di ciò che definisce l'essere umano nella sua intima
essenza attraverso la triade comprendente: Es, Io e Super-Io, ovvero i tre costrutti (istanze) che sottendono la salute mentale – e fisica – di una
persona. L'equilibrio della mente umana è stabilito da fattori
esterni e interni, cause endogene o esogene possono comprometterne la
stabilità, né più né meno come avviene in tutti gli altri
sistemi. Nella sua complessità la mente umana riesce ad attuare
meccanismi di difesa capaci di proteggerla, tutelando lo stato e
l'integrità del soggetto.
Nel nuovo film di M.
Night Shyamalan, Split (2017),
facciamo i conti con le centomila possibilità racchiuse
dall'individuo. Il protagonista, che per semplicità chiameremo
Kevin, interpretato da James McAvoy – il prof. Xavier senza
titoli accademici e, ad un certo punto, senza capelli negli spinoff e
sequel marveliani: X-Men, L'inizio, X-Men, Giorni di un
futuro passato e X-Men
Apocalisse, per
intenderci – incarna le infinite possibilità racchiuse dall'essere
umano letteralmente portate alle estreme conseguenze. La malattia è
la condizione che innesca la vicenda e che connota il protagonista. Il
disturbo dissociativo di identità, di cui Kevin porta i segni nelle
sue ben 23 distinte personalità, è la molla in grado di scatenare
le molteplici facoltà dell'essere umano, nonché un ingrediente
capace di solleticare l'immaginario.
Alcune rappresentazioni
del disturbo di personalità multipla vengono ricordate come vere e
proprie pietre miliari, dal classico Dr Jeckyl and Mr Hyde
sino al Fight Club scritto da
Chuck Palanhiuk, poi divenuto un fortunatissimo film diretto da David
Fincher, o andando indietro nel tempo Psycho di Hitchcock.
Shyamalan aggiunge un qualcosa in più alla ricetta del suo Split:
andando oltre il thriller, riuscendo a sbilanciarlo, nella seconda
metà del film, lo declina verso il genere horror; il regista riesce
a punzecchiare l'immaginario al punto giusto spingendo la base
scientifica della trama verso un'affascinante e inquietante teoria
evoluzionistica della specie rasente il superomismo. Come lascia
intendere la dottoressa Fletcher che ha in cura Kevin: la chiave che
consente di spalancare le porte delle infinite potenzialità umane è
racchiusa nel nostro cervello.
Tra thriller e velato
horror il regista sceglie l'ibridazione: la commistione dei due generi
tende spontaneamente al contatto nella trama del suo film,
giungendo ad uno scivolamento verso il secondo nella parte finale della
pellicola. È un lenta e inevitabile tracimazione che non lascia
scampo allo spettatore: tenendo ferme le premesse scientifiche
introdotte dalla dottoressa Fletcher sulle infinite possibilità
dell'essere umano e la sua capacità di modificare anche taluni
aspetti e certe caratteristiche fisiche e morfologiche, in consonanza
con il suo cambio di personalità, la distorsione della mente del
protagonista prende una brutta piega con lo svolgimento dei fatti e
con il dipanarsi della trama. Il disturbo è motore dell'azione, che
invischia le tre malcapitate di turno in una macchina pronta a
reclamare il suo tributo di sangue.
Il regista fa muovere i
suoi personaggi in un ambiente fisico oscillante tra tetra
claustrofobia e contesti urbani newyorkesi che trovano consonanze con
gli aspetti psicologici dei vari soggetti. Il sostrato dei personaggi
viene coltivato attingendo al campo della psicopatologia fornendoci
alcune coordinate per entrare nella mente di Kevin e, attraverso
provvidenziali flashback, nel toccante passato di una delle sue
vittime; siamo testimoni degli esiti che il disturbo porta con sé e
della manifestazione di un dramma comune che getta un ponte tra due
figure altrimenti relegate agli antipodi. Da una scientifica tesi
iniziale, si approda alla fine alla concreta materializzazione
dell'incubo che emerge in tutta la sua – felice – virulenza e che
ammicca ad un filone molto più vicino al genere fumettistico, di
notevole impatto fotografico oltre che tematico.
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