recensione di Mattia
Sangiuliano
Denis Villeneuve è
il regista di Arrival film
fantascientifico, tratto da Storie della tua vita di Ted Chiang,
ambientato su una Terra improvvisamente visitata da dodici oggetti –
in un primo, e molto breve, momento – non identificati che
atterrano in altrettante zone del pianeta, scegliendo apparentemente
a caso il luogo dell'atterraggio. Prima di questa repentina e
inaspettata visita extraterrestre vediamo muoversi in primo piano,
dopo una breve introduzione, la protagonista della storia: la
linguista Louise
Banks, alias Amy
Adams.
Louise viene coinvolta dopo la comparsa delle astronavi nelle
operazioni militari del caso nel tentativo di comunicare con i
misteriosi visitatori nella loro complessa lingua così da poter
chiarire il prima possibile le loro intenzioni ed eventualmente
prendere le adeguate contromisure – la prospettiva della difesa
contro un eventuale aggressione è la prima ipotesi che la razza
umana, per sua nauta guerrafondaia, deve paventare.
Louise
è una scienziata, non meno del fisico Ian Donnelly, interpretato da
Jeremy Renner,
suo collega in questa missione. Dopo alcuni iniziali tentennamenti,
una volta giunta sul sito dell'atterraggio e al cospetto di questi
viaggiatori interplanetari che verranno nominati eptapodi (“sette
piedi”), la linguista sfodera tutta la sua conoscenza in materia,
con doti maieutiche denotate da una instancabile pazienza e profonda
dedizione allo studio e alla comprensione, intesse un rapporto
diretto di scambio con i visitatori, allo scopo di insegnare loro e
far apprendere al team degli scienziati terrestri un vocabolario
comune, così da evitare incomprensioni e poter rivolgere ai
visitatori la fatidica domanda di cui tutti cercano di scovare la
risposta: il perché della loro apparizione sulla Terra. La fiducia
che la professoressa Banks ripone nella controparte extraterrestre
non sembra ben vista da tutti, attorno al suo compito si addensano
cupe nubi di diffidenza.
Il regista gioca con la struttura narrativa della sceneggiatura;
alcuni frammenti introduttivi definiscono il personaggio di Louise
Banks, saranno le briciole per seguire gli sviluppi psicologici della
trama. Dal momento del contatto in poi, con la progressiva
acquisizione di una sorprendente competenza relativa al complesso
linguaggio degli eptapodi da parte della protagonista, con la quale
comunicano rimanendo in un mezzo diverso da quello abitato
dall'essere umano tracciando i loro logogrammi su uno schermo che li
separa fisicamente dagli uomini, Villeneuve incomincerà a giocare
con l'andamento apparentemente lineare della trama raffinandola con
l'intreccio dato da quelli che apparentemente erano flashback o sogni
di Louise; piegherà così l'arco narrativo della vicenda offrendo
una perfetta struttura circolare, molto simile alla scrittura degli
alieni. Villeneuve approda oltre dipingendo un dramma umano, profondo
quanto l'universo.
Alla fine emerge, in
tutta la sua toccante drammaticità, non sola la scollatura del
linguaggio che si scontra con l'incapacità effettiva di poter
comunicare concretamente con l'altro ma, ancora, con la rinnovata
consapevolezza umana della propria impotenza di fronte ad un destino
che si palesa, nella sceneggiatura offerta, in tutta la sua
ineluttabilità. Certe guerre, certe catastrofi, per quanto quasi
insite nel codice genetico dell'essere umano, possono essere evitate;
non lo sono invece certe pieghe della storia – con la “s”
minuscola – di un singolo individuo, infinitamente piccolo, breve
parentesi nel corso dello scorrere della Storia universale. Una
singola minuscola esistenza si rivela capace di caricarsi di un
fardello tanto gravoso quanto necessario, rivelando un'indole in
grado di rasentare l'eroico, dietro le sembianze di un'amorevole e
toccante tempra materna che, nonostante tutto, accetta il proprio
destino.
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