di Mattia Sangiuliano.
La natura
dell'esploratore spinge l'uomo a sondare l'ignoto oltre i confini
della conoscenza, ad andare oltre i limiti dell'occhio umano e della
scienza che lo guida e sorregge. Nulla di trascendentale, la speranza
dell'uomo riposta in un “altro” da lui viene negata nel momento
in cui sembra materializzarsi la spiegazione ultima; al centro
dell'universo viene ricollocato l'uomo e, soprattutto, l'esploratore;
il viaggiatore, spinto ai limiti dell'universo conosciuto e oltre,
dentro l'ignoto insondabile, è il centro gravitazionale del suo
stesso viaggio.
È come se ci fossimo
dimenticati chi siamo, Donald: esploratori, pionieri. Non dei
guardiani. (Cooper)
Il viaggio e il ritorno a
casa, la speranza di trovare una nuova dimora e il bisogno di tornare
indietro anche abdicando al proprio compito di esploratore; salvare
l'umanità o far si che l'arca partita possa approdare e far
sopravvivere la razza umana; il bisogno di fermare lo scorrere
del tempo, di non doversi sentire così insignificanti nell'immensità
dell'universo. Queste alcune ambivalenze tematiche che si rincorrono
mentre la pellicola si svolge sotto gli occhi dello spettatore. Il
viaggio non è solo spostamento, movimento o dinamismo, senso
dell'avventura, non è evoluzione individuale o scoperta, è qualcosa
di più individuale che emerge dal dramma corale e collettivo: il
viaggio è anche nostalgia, come in molte rappresentazioni
artistiche. Il più antico e illustre antecedente può essere
rintracciato nei nostoi greci, le opere e le storie che prendono
avvio da un nucleo comune, quello del ciclo poetico originatosi dal
concludersi del ciclo troiano e che si apre con l'Odissea, con il
viaggio di ritorno a Itaca di Ulisse. Radice stessa della parola
nostalgia, di origine greca, sono le parole “algos”, dolore, e
“nostos”, ritorno, letteralmente “dolore del ritorno”. In
tedesco Heimweh letteralmente
“il dolore della casa”.
Le musiche di Hans
Zimmer si fanno sentire, riuscitissimo corredo del viaggio
interstellare e dei dissidi e drammi interiori dei protagonisti,
l'insidia del viaggio e la fragilità del singolo chiamato a
confrontarsi con la sua infinita fragilità; sullo sfondo una Terra
avviata verso una fine ormai inevitabile e un gelido universo,
sconfinato e insidioso; il dramma o, se si vuole, il melodramma –
visto l'impatto che suscita la musica –, vengono cadenzati dalle
musiche del compositore tedesco (stabilitosi negli States) che, già
per altri film di Nolan – per tutta la trilogia di Batman, Begins,
The Dark knight e The
dark knight rises o Inception – aveva dato il suo
contributo artistico. In Interstellar il contributo di Zimmer
si sente, ed è molto apprezzato.
Illustre antecedente citato – a tratti in maniera ossessivo-compulsiva – quando si
parla del nuovo film di Cristopher Nolan è la celebre pellicola
2001. Odissea nello spazio
del registra Stanley Kubrick, che certamente è un'icona per lo
stesso Nolan. Interstellar mette – differenziandosi da 2001 – il nudo e spoglio eroismo individuale, ma
più che l'eroismo il grido di libertà del singolo; il protagonista
che muove i primi passi su uno scenario desolante, lo spettro di una
Terra che verrà, in cui il grano muore a causa di una “piaga” e
in cui le missioni spaziali sono state abbandonate da tempo; un
promettente ex-astronauta si ritrova a fare l'agricoltore, l'unica
attività che sembra poter garantire la salvezza del genere umano. Ma
in segreto qualcosa si muove, è il progetto Lazarus.
E
come il Lazzaro dei vangeli anche il protagonista è portato a
svegliarsi più volte nel corso della pellicola, forse negando il suo
ruolo di genitore, diviso – solo apparentemente lacerato – dal
dramma della separazione che lo porterà anni luce lontano dal suo
pianeta e dai suoi figli, la sua vocazione da pilota e il suo essere
padre, due facce a confronto di un individuo che si strugge ma che
confida nella sua missione, che sacrifica e si duole per le sue
scelte, che paga sulla sua pelle per le sue decisioni, ma che non si
tira indietro; su tutto il memento mori della fragile umanità,
il sapersi pentire per le proprie scelte. La paura si presenta su
vari piani: è quella di non riuscire a tornare, di fallire la
propria missione e non solo – e non soprattutto – il non riuscire
a salvare il genere umano, altrimenti condannato alla rovina, ma il
concreto timore di un padre che teme di non poter tornare dai propri
cari mancando la propria promessa; emerge l'egoismo del singolo,
declinato in varie sfaccettature, accanto allo struggimento della
nostalgia. L'astronauta, non l'argonauta, è lanciato nella sua
missione sapendo che, difficilmente sarà in grado di tornare
indietro. La solitudine e l'angoscia fanno vacillare il cuore
dell'esploratore che si specchia nel baratro tetro e insondabile
della sua natura.
La
fantascienza si mescola con la scienza, con le teorie dello studioso
californiano, fisico teorico, Kip Thorne di cui Nolan ha
reinterpretato le ricerche e le tesi poste alla base della sua
sceneggiatura. Dove la scienza è teoria, il fantastico,
l'immaginario è libero di creare, di interpretare o reinterpretare
la realtà, creando nessi in una trama che si mescola su più piani,
dalla soggettiva individualità, alla missione che trascende i
confini del singolo individuo. Il filo narrativo non lascia nulla al
caso, la storia si evolve seguendo la linearità della fabula,
l'intreccio è solo apparente, influenzato dal centro gravitazionale
di una gelida oscurità siderale che ingoia tutto ciò che gli capita
a tiro.
Un tempo per la
meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del
firmamento, ora invece lo abbassiamo preoccupati di far parte del
mare di fango.
(Cooper)
Dalla
crisi della soggettività non nasce il timore di Dio, di un dio che
regge i fili o di un insperato altro che ordisce la salvezza
dell'umanità dietro i fondali di scena, nessuna quarta parete viene
abbattuta, è solo un fremito che suggerisce una possibile soluzione
all'enigma, un sussurro attraverso lo spazio e il tempo, vincendo la
gravità che ci vuole solidamente ancorati; è l'uomo e il suo porsi
dinnanzi al proprio destino, esploratore, a uscire rafforzato,
eucaristicamente solo nell'universo.
Do not go gentle
into that good night (Non andartene gentile in quella buona
notte) recita il professor Brand, riprendendo i versi (1951)
di una poesia di addio che il poeta gallese Dylan Thomas
(1914-1953) compose per il padre morente, un cupo ma speranzoso
viatico per i viaggiatori ed esploratori chiamati ad abbandonare il
proprio pianeta per l'ignoto, non sapendo se faranno mai ritorno, un
invito a non lasciarsi ingoiare dalle proprie paure o dalle tenebre della notte misteriosa
e solitaria; la maledizione del navigatore che si incammina verso i
confini di ciò che è noto per andare oltre.
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