recensione di Mattia Sangiuliano
«Si sbaglierà di rado se si
ricondurranno le azioni estreme alla vanità, quelle mediocri
all'abitudine e quelle meschine alla paura.» (Friedrich Nietzsche;
Umano troppo umano)
Il libro di Marco Belpoliti è una
sorta di romanzo della contemporaneità ed è, dalle intenzioni
dell'autore stesso, una sorta di tentativo di disegnare la mappa di
«un mare procelloso e profondo che non è sempre facile navigare, e
tanto meno cartografare»
È il mare della modernità nell'età
dell'estremismo, visto attraverso la lente caleidoscopica dell'arte,
un'epoca raccontata in «un romanzo di idee e di fatti estetici».
Punto di partenza del nucleo narrativo
e tematico è da rintracciarsi in un libro dello stesso Belpoliti,
pubblicato dieci anni prima per la casa editrice Einaudi, dal
significativo titolo Crolli (2005) che, già dal titolo, richiama in
campo una parte considerevole delle tematiche centrali che sottendono
questa nuova opera di Belpoliti; ben 21 capitoli del precedente libro
del 2005 sono stati inclusi in “L'età dell'estremismo”, altri
scritti che compongono l'opera risalgono a lavori e articoli che
l'autore aveva pubblicato presso testate giornalistiche o riviste –
ad esempio “Alias”, allegato de Il Manifesto o, ancora, “La
Stampa” e “Domus”.
Per risalire all'origine della frase
che costituisce il titolo bisogna riandare al 1965, anno di
pubblicazione di un saggio che la scrittrice e intellettuale
statunitense Susan Sontag dedica all'Immagine del disastro,
un'opera che risulta di un'allarmante attualità nonostante il tempo
trascorso:
«La nostra è effettivamente un'epoca
di estremismi. Viviamo infatti sotto la minaccia continua di due
prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte:
la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile.»
La Sontag pone queste riflessioni a
corredo di alcune analisi inerenti il genere fantascientifico nel
cinema statunitense; il tema centrale della sua riflessione è come
la fantasia «servita in razioni abbondanti delle arti popolari»
permetta di «tenere testa a questi due aspetti», la banalità e il
terrore. La fantasia ha il potere di «sollevarci dalla monotonia e
distrarci dalle paure» oppure può portare a «normalizzare ciò che
è psicologicamente insopportabile, assuefacendoci così a esso. Nel
primo caso la fantasia abbellisce il mondo, nel secondo caso lo
neutralizza».
Le riflessioni di
Susan Sontag chiamano in campo la questione del kitsch, ampiamente
ripresa dallo stesso Belpoliti che, nella sua trattazione, fa
scendere in campo le riflessioni sollevate dallo scrittore praghese
Milan Kundera nel romanzo “L'insostenibile leggerezza dell'essere”,
pubblicato negli anni '80, in cui il kitsch è parola chiave legata
al sentimentalismo, di cui è espressione assieme alla “dittatura
del cuore”.

Un altro muro è quello del pianto che
divide Gerusalemme, ancora una volta in un Est e in un Ovest,
contrapposti; è la storia del conflitto tra Israele e il mondo
musulmano, tra soldati israeliani e guerriglieri palestinesi, da qui
l'adozione di nuovi armamenti, nuove tecnologie che spingono a
distruggere le mura delle abitazioni e delle case dei nemici o, come
troppo spesso accade, dei civili presunti tali.
È un viaggio attraverso macerie e
rovine, dove, prestando attenzione alla storia e ai fatti, si è in
grado di ricostruire gli avvenimenti, di sentir parlare le macerie
stesse dall'impatto visivo che queste suscitano in
noi che le osserviamo. L'opera del 1993 che l'artista tedesco Hans
Haacke eseguì alla Biennale di Venezia persegue questo chiaro
intento, il tema delle macerie occupa la memoria dei tedeschi, in un
lembo di storia che congiunge la fine del conflitto e la caduta del
muro che divideva in due Berlino e il mondo; Haacke ha eseguito
l'opera prendendo una porzione di pavimento, costruito durante il
nazismo, e lo ha divelto scomponendo e sollevando i blocchi che lo
componevano, distruggendone e contorcendone la struttura. Il titolo
dell'opera è Germania.
«Un milione di tonnellate di bombe in
quattrocentomila incursioni» nell'arco di quattro anni, sono il
risultato dell'offensiva della Royal Air Force britannica contro il
nemico tedesco. Lo scrittore tedesco Sebald ha contato che, ad ogni
abitante di Dresda, città maggiormente colpita dai massicci
bombardamenti, sono toccati ben 42,8 metri cubi di macerie.
Impossibile non evocare le torri
gemelle, il World Trade Center di New York, ormai nella mente del
mondo come il luogo del disastro, dove prima si ergevano i due
giganti resta il Ground Zero, luogo in cui sono sedimentate le
macerie e le vittime dello schianto, passeggeri e impiegati che, l'11
settembre, erano entrati nei due edifici per lavorare. L'illustratore
Art Spiegelman (autore della graphic novel Maus) si è dovuto
confrontare con la rappresentazione del disastro.
Dal Ground Zero, dopo la rimozione
delle tonnellate di calcestruzzo, cemento armato, acciaio e corpi
delle vittime, si è ricostruito; un altro grattacelo, unico, svetta
sul luogo dello schianto. Ma il WTC resta il luogo dove sono perite
migliaia di persone, vittime dell'estremismo, dell'integralismo
religioso, di un conflitto. Il nuovo grattacielo è anche una lapide,
un memoriale che ricorda le vittime?
Il memoriale è anche l'imponente
monumento voluto dal parlamento tedesco, opera di Peter Eisenman,
che, a Berlino, sotto la porta di Brandeburgo, a poche decine di
metri dal bunker in cui Hitler si è tolto la vita, vuole ricordare
le vittime che il nazismo ha mietuto nei campi di concentramento e di
sterminio, sorti in tutta l'Europa piegata alla follia della croce
uncinata. I monoliti che compongono il memoriale rievocano, nella
loro brutale semplicità, delle lapidi che si sollevano da un terreno
scomposto, depresso nella parte centrale, foriero di un senso di
oppressione, per tutti quelli che passeggiano al suo interno, nel
ventre di quella lapidaria e tremenda memoria che rievoca. A pochi
metri dal bunker in cui Hitler si è asserragliato nelle ultime fasi
del conflitto, un bunker che ritorna nella rappresentazione del film
La Caduta diretto da Oliver Hirschbiegel con Bruno Ganz nei
panni del dittatore nazista.
L'immaginario che il bunker evoca torna
prepotentemente dopo i fatti dell'11 settembre 2011; la caccia è
aperta e l'obiettivo è il capo della cellula terroristica che ha
ordito l'attacco alle Twin Towers di New York: Osama bin Laden, che
si suppone si sia rifugiato in un bunker in qualche area
mediorientale. L'idea del bunker è però infondata; dopo un decennio
di ricerche infruttuose e falsi allarmi, il leader della cellula
terroristica di Al-Qaida non era nascosto in un bunker – forse
naturale – tra le rocce delle montagne afghane ma in un compound in
Pakistan. Luogo dove venne ucciso il 1° maggio del 2011, individuato
e raggiunto dai Navy Seal statunitensi, in un'operazione segreta
voluta dal presidente Obama. Nonostante le presunte analogie tra il
dittatore nazista e il capo terrorista di Al-Qaida, molte sono le
differenze tra le due dipartite; mentre Hitler muore suicida e
dispone che la sua salma venga distrutta affinché il nemico non
possa sconsacrarla, al terrorista yemenita, ucciso da un commando
dopo aver opposto resistenza, viene negata una sepoltura in terra
affinché il sepolcro non divenga terreno sacro per i suoi seguaci,
il cadavere viene così appesantito e lasciato sprofondare nel Mar
Arabico.
Le macerie con il loro ingombro fisico, spesso di cui liberarsi, sono un'occasione per rielaborarne il
concetto: da ingombrante peso, non solo fisico, sono un'occasione per
riflettere sulla loro materialità, non una cosa da dimenticare o da
assimilare, divorandola, da non sacralizzare ma neppure da lasciar
cadere nell'oblio; forse in questo senso è bene ricordare il
racconto di Primo Levi de “Il passa-muri”, la storia di un
alchimista che, imprigionato, riesce a evadere passando attraverso il
muro della propria cella; forse assimilare la storia non è la via,
quanto più passare attraverso il cumulo di macerie, percependole,
sentendole scorrere dentro di noi, facendo si che non siano solo
depositi o deiezioni del tempo passato.
La leggerezza, l'assenza di peso sembra
connotare la figura del francese Petit, ragazzo e aspirante funambolo
che nell'inverno del 1968 maturò il proposito tendere un cavo le due
torri del World Trade Center e camminare sul vuoto. Nel 1971 tocca
alle due torri del Notre-Dame. Il 7 agosto 1974, il francese Petit,
porterà a termine il suo “colpo” tra le torri gemelle del WTC.
La maceria irrompe con violenza nello
spettro della guerra nucleare, oltre la guerra fredda i rischi della
devastazione atomica terrorizzano come il peggior scenario possibile.
Non più per impiego bellico, l'ingegneria nucleare preoccupa sempre
più per un suo esteso impiego civile; non solo Chernobyl e le città
ucraine limitrofe, anche Fukushima scenario di desolazione, entrambi
i casi vengono rievocati, visti attraverso l'obbiettivo di fotografi
giunti sul posto per documentare i disastri che hanno come
protagonista l'uomo e il suo porsi dinnanzi alla natura. Città
fantasma, terreni abbandonati a sé stessi per chilometri e
chilometri, aspettando che decada la radioattività, le fuoriuscite
cessino; restano vuoti e spettri di un passato che testimonia solo la
catastrofe in un presente di abbandono, di macerie. Mentre il ricordo
svanisce a poco a poco. L'identica tragedia stringe in una morsa il
tragico destino di Pryp'jat', situata a pochi chilometri da Chernobyl
nel 1986, e i territori dell'ormai “zona proibita” sorti
all'ombra della centrale nucleare di Fukushima dopo il 2011.
Pyongyang viene vista nella sua utopia
comunista, contraddittoria e silenziosa, misteriosa e inaccessibile, attraverso gli occhi degli architetti italiani dell'Accademia
dell'architettura, di artisti o cronisti che l'hanno visitata e
raccontata, ne è un esempio il resoconto scritto – e ritratto – dal
fumettista canadese Guy Delisle; il “futuro anteriore” della
modernità architettonica che riprogetta l'altrimenti invisibile
capitale Nord coreana, intenta a perpetrare il suo culto di
identificazione con il regime dinastico che governa il paese. Dagli
occhi degli architetti, e dagli scatti che il fotografo italotedesco
Armin Linke immortala emerge un dialogo a tratti antitetico, tra una chiusa ed ermetica Corea del Nord con le sue architetture, le sue
«rovine della modernità».
In Posthuman del critico Jeffrey
Deitch la rovina è base essenziale, condizione estetica necessaria,
di questo movimento artistico dei primi anni novanta; le immagini che emergono dal ciclo dei cinque lungometraggi dell'artista americano
Matthew Barney, Cremaster (1994-2002), mettono al centro la
tematica dell'ibrido, similmente alle operazioni cui si sottopone
Orlan o alle meccanizzazioni di Sterlac; l'umanesimo tradizionale è
in crisi. Due storici e critici d'arte, Bois e Krauss, curano
l'esposizione francese l'Informe
(1996), più radicale di
Posthuman, si prefigge
di disfare la forma andando oltre una classificazione fatta di
dualismi – bello-brutto, bianco-nero, biologico-meccanico –
simile a quanto aveva postulato Donna Harvey nel suo Manifesto
Cyborg (1991), secondo il quale
le coppie di opposizioni non hanno più alcun senso.
L'opera di Belpoliti è la summa di un
viaggio all'interno della Storia attraverso, l'arte – performance
artistiche, fotografie, architettura – e allo stesso tempo
nell'arte per spiegare la storia della seconda metà del '900.
Viviano in un'epoca di attesa, dove la catastrofe illumina con la sua
luce l'uscita dal tunnel. È il frutto delle macerie accumulatesi nei
conflitti di un intero secolo – il novecento.
La domanda è quanto influenzino tutti
questi eventi, in un mondo che continua a mutare sempre più in
fretta, in un'accelerazione vertiginosa. Nell'introduzione del libro
Belpoliti unisce due eventi lontani, distanti nel tempo, ma simili,
per spiegare quella sorta di oblio che sembra investire la storia. Il
28 giugno 1992 il presidente francese Mitterrand giunge a Sarajevo.
Nessuno sembra accorgersi della concomitanza delle date. Il 28 giugno
del 1914 il duca Francesco Ferdinando venne assassinato a
Sarajevo. Secondo lo studioso inglese Hobsbawm nessuno colse la
coincidenza perché la memoria storica non era più viva. I giovani
sono abituati a vivere in un eterno presente. Ma forse non solo loro.
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