di Mattia Sangiuliano
Primo Michele Levi nacque
a Torino il 31 luglio del 1919. Si laureò nel 1944 in chimica,
successivamente decise di militare attivamente sulle colline
piemontesi imbracciando le armi contro l'occupazione nazifascista,
come partigiano all'interno della formazione Giustizia e Libertà.
Dopo qualche mese venne catturato e, a seguito dell'ammissione della
sua origine ebraica, internato a Fòssoli e da qui espatriato,
deportato verso Auschwitz. Con queste premesse si ha l'avvio del
romanzo autobiografico intitolato Se questo è un uomo, ambientato
all'interno del tristemente noto Lager presso l'omonima cittadina di
Auschwitz, in Polonia.
Il lavoro è una tematica
centrale all'interno del discorso di Primo Levi. Attraversa,
assumendo varie sfumature, gran parte della sua produzione; torna in
varie e multiformi sfaccettature nella quasi totalità delle sue
opere investendo parimenti il ruolo, e il dovere comunicativo, del
testimone sopravvissuto all'Olocausto.
Già dal primo romanzo,
attraverso la testimonianza della vita nel campo di concentramento di
Auschwitz-Monowitz vengono presentate le condizioni disumane in cui
sono costretti i prigionieri, gli Häftlinge
di varie nazionalità, ritenuti colpevoli e criminali, dunque
condannati, dal sistema nazista; fra le colpe più gravi proprio
quelle razziali, codificate dal regime nazista nelle Leggi di
Norimberga. Dopo la spoliazione, l'umiliazione della nudità – come
vermi pronti ad essere calpestati, è la similitudine leviana –, si
subisce la privazione di ogni possibilità di un contatto concreto
con il lavoro che, all'interno del Lager, rivestiva un ruolo di
vitale importanza, rappresentando l'unica possibilità di
sopravvivenza. Era l'attività che sanciva il discrimine fra la vita
e la morte, nonché – in certi casi – la possibilità di ottenere
una serie di vantaggi materiali.
Attraverso questa
occupazione, cui tutti erano costretti, si manifesta la possibilità
di degradare ulteriormente i prigionieri, seguendo i dettami del
progetto nazionalsocialista:
“il disconoscimento, il
vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito
fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo,
corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di
sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore
umano. Questa volontà appare già chiara nell’aspetto antioperaio
che il fascismo italiano assume fin dai primi anni, e va affermandosi
con sempre maggior precisione nella evoluzione del fascismo nella sua
versione tedesca, fino alle massicce deportazioni in Germania di
lavoratori provenienti da tutti i paesi occupati, ma trova il suo
coronamento, ed insieme la sua riduzione all’assurdo, nell’universo
concentrazionario.”[1]
L'umiliazione, l'assalto
psicologico, la prostrazione stessa in cui versavano i prigionieri
erano i fattori che riuscivano ad oliare la macchina del Lager, uniti
alla costante minaccia dell'atrocità che si svolgeva sempre uguale,
un giorno dopo l'altro, in una prigionia di cui era impossibile
scorgere la fine, nello scenario desolante di una gerarchizzazione
schiavistica di perpetua e funzionale sottomissione delle razze
inferiori. L'unico modo per porvi rimedio, trovare una via di fuga,
era la morte; ma prima di questa l'annullamento di ogni forma di
resistenza: piegando e spezzando la volontà dei prigionieri che
dovevano accettare la degradazione e la disumanizzazione. A questo
prezzo si poteva sperare di sopravvivere più a lungo.
Le continue vessazioni
delle SS, dei Kapos e dei vari “prominenti”, miravano a
distruggere la capacità dei singoli di usare lo strumento della
comunicazione; in un arcipelago di culture all'interno di una babele
di lingue, l'obiettivo era quello di causare uno stato di afasia e
attraverso questa distruggere la memoria di quanto avveniva
all'interno dei campi di sterminio; distruggere fisicamente e nel
profondo, estirpando i connotati umani degli Häftlinge,
dei prigionieri. Così risuonavano le minacce degli aguzzini nazisti
ricordate da Levi, riprendendo le parole di
Simon Wiesenthal:
“In qualunque modo
questa guerra finisca, la guerra contro di voi l'abbiamo vinta noi;
nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche
qualcuno scappasse, il mondo non gli crederà. […] E quando anche
qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la
gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per
essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata,
e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi. La storia del
Lager, saremo noi a dettarla.”[2]
Era necessaria la
privazione, la spogliazione di ogni dignità intellettuale dello
schiavo ebreo, zingaro, o più in generale non-ariano, all'interno
del sistema concentrazionario che sarebbe dovuto diventare il
prototipo di quel fantomatico “Ordine Nuovo” agognato dal Terzo
Reich; “ordine” che, da alcune riflessioni di Levi, in merito
alla cultura, contenute nel saggio I sommersi e i salvati viene a
tingersi di una connotazione distopica di imbarbarimento delle
vittime – non ariane – sino alla loro completa animalizzazione;
non a caso l'autore ricorda Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, quasi
domandandosi “che cosa significherebbe essere costretti a vivere in
un mondo senza libri, e quale valore assumerebbe in esso la memoria
dei libri”[3]; in questo “ordine”, in cui le razze
ebraiche o zingare non erano previste – in quanto estirpate – le
altre razze, di poco superiori, dovevano essere asservite
all'utilizzo che i padroni ariani si arrogavano:
“ad esempio gli slavi
in genere ed i russi in specie sarebbero state asservite e sottoposte
ad un regime di degradazione biologica accuratamente studiato, onde
trasformarne gli individui in buoni animali da fatica, analfabeti,
privi di qualsiasi iniziativa, incapaci di ribellione e di
critica.”[4]
Nel panorama di
devastazione umana, di soppressione della libertà, la capacità e il
coraggio di sottrarsi al meccanismo di annichilimento rappresentato
dal Lager poteva essere quella stessa cultura, conditio sine qua non
propria dell'essere umano, appiglio cui aggrapparsi per resistere
ostinatamente alla degradazione:
“La cultura poteva
dunque servire, anche se solo in qualche caso marginale, e per brevi
periodi; poteva abbellire qualche ora, stabilire un legame fugace con
un compagno, mantenere viva e sana la mente.”[5]
Ma, oltre a palliativo
con cui indorare le gabbie della prigione, la cultura poteva essere
un'arma a doppio taglio che agisce ai danni dell'intellettuale o del
prigioniero colto, infatti “L'uomo semplice, abituato a non porsi
domande, era al riparo dall'inutile tormento del chiedersi perché;
inoltre, spesso possedeva un mestiere o una manualità che
facilitavano il suo inserimento.”[6]
La penalizzazione degli
intellettuali era funzionale al sistema che invece privilegiava i
soggetti più prestanti, adatti a sopportare il carico dello
sfruttamento cui i prigionieri erano sottoposti. La cultura infatti
il più delle volte non garantiva i prigionieri, non li salvava dalle
selezioni in cui “un'occhiata avrebbe deciso se avrei dovuto andare
subito alla camera a gas, o se invece ero abbastanza forte per
lavorare ancora.”[7] Solo in rari casi, quando dipendeva non dai
Kapos bensì dai civili che possedevano i campi di concentramento
“privati”, come quello di Monowitz, impiegare Häftlinge
specializzati, difficilmente rimpiazzabili,
in altre attività.
L'esame di chimica cui
Levi fu sottoposto nel periodo invernale del '44-'45 gli consente un
sensibile miglioramento della sua condizione di schiavo; in quanto
prigioniero “privilegiato”, ha diritto a maggiore zuppa, “e ha
diritto a camicia e mutande nuove e deve essere raso ogni
mercoledì”[8], nonché la prospettiva di svernare in un
ambiente riscaldato e confortevole mentre gli altri prigionieri,
sterratori, erano costretti a trascorrere gran parte della giornata
lavorando sotto la neve al ritmo di turni disumani e massacranti, con
la scarsa razione alimentare e la concreta possibilità di non veder
sorgere la primavera successiva. “Adesso basta, adesso è finito. È
l'ultimo atto: l'inverno è incominciato, e con lui la nostra ultima
battaglia”[9].
In questa condizione di
privilegiato, all'interno di un laboratorio di chimica, nonostante
ancora scansato dalla maggior parte dei civili che lavorano
all'interno dello stabile, lontano dalla contingenza estrema del
Lager, Levi matura l'idea di raccogliere i fatti della sua prigionia,
di fissarli, affinché possano portare testimonianza degli abomini
subiti da lui e dagli altri prigionieri; contro l'oblio propugnato
dai gerarchi nazisti e dai Kapos del campo.
Il bisogno di comunicare
e di capire, trarre dallo scambio comunicativo spiegazioni, poter
comprendere la realtà che si ha di fronte, è una delle libertà
insopprimibili dell'essere umano, pena la sua soppressione:
“comprendi a tue spese che la comunicazione genera l'informazione,
e che senza informazione non si vive.”[10]
La comunicazione è la
funzione, il compito del sopravvissuto; testimoniare e vincere
l'oblio, ciò che invece gli aguzzini nazisti avrebbero voluto
infliggere ai loro prigionieri: non solo testimoni bensì portatori
di memoria, ricordo vivente di ciò che è stato. Levi assolse a
questo suo mestiere di testimone, accanto a quello di chimico,
scrivendo e parlando, raccontando, incontrando, entrando nelle
scuole, comunicando ciò che fu costretto a subire.
Levi insegna come la
libertà di comunicare debba essere tutelata proprio oggi che,
sovente, è un bene dato per scontato, affinché non si ripetano gli errori
del passato:
“Come per la salute,
solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non se ne soffre
solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la
comunicazione è impedita, appassiscono presto tutte le altre
libertà; muore per inedia la discussione, dilaga l'ignoranza
delle opinioni altrui, trionfano le opinioni imposte.”[11]
Fonti:
-Primo Levi, in
«Triangolo Rosso», Aned, novembre 1959 [1][4]
-Levi, Primo; “Se
questo è un uomo”, Einaudi (1984) [8][9]
-Levi, Primo; “I
sommersi e i salvati”, Einaudi (2006) [2][3][5][6][7][10][11]
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