lunedì 17 gennaio 2022

Matrix Resurrections – un riuscito meta-racconto vent’anni dopo la conclusione della trilogia

La regista Lana Wachowski ordisce un interessante meta-racconto per un quarto capitolo che si muove tra alti e bassi; un buon prodotto cinematografico quando ormai, con l’universo di Matrix, si era già detto tutto. Una pellicola di cui, forse, non si sentiva il bisogno, ma al riparo dal naufragio. Speriamo ammainino le vele e non decidano di fare un’altra trilogia.

Recensione di Mattia Sangiuliano

Riprendere in mano una trilogia epocale come Matrix, vent’anni dopo la sua più che buona conclusione, è un’operazione che potrebbe sembrare molto più di un azzardo. Blockbuster di cui se ne sente poco il bisogno vengono sfornati con cadenza settimanale dall’industria dell’intrattenimento, talvolta con buoni o discreti incassi al botteghino ma con una marea di pareri negativi al seguito. Bisogna però tenere presenti due cose e due piani tra loro contigui ma distinti: successo di botteghino non indica necessariamente qualità della pellicola, anche se spesso è il primo termometro per misurare l’indice di gradimento di un’opera; in secondo luogo, la marea montante dei commentatori dal giudizio facile sarà sempre in agguato, ad ogni uscita (libri, film, album musicali…), trovando sempre – a torto o a ragione – qualcosa di storto. Le critiche rumorose non esprimono necessariamente un elemento valutativo interessante e, se non suffragate da qualche pensiero costruttivo, lasciano il tempo che trovano.

Ho visto l’ultimo Matrix una settimana fa. Ho aspettato un po’ di tempo prima di parlarne per lasciar decantare la gran mole di informazioni e di opinioni che mi ha suscitato l’ultimo capitolo diretto da Lana Wachowski. Va detto sin da subito che l’opera, già stratificata come i precedenti capitoli, presenta alcuni interessanti aspetti e soluzioni narrative e metanarrative sicuramente coraggiose che, a seconda dei gusti, possono o meno piacere ma che, indubbiamente, risolvono molti problemi che la (ri)scrittura del capitolo avrebbe comportato. Il primo pregio della regista è stato quello di prendere una bella decisione per riportare alla luce un franchising che non poteva dire nient’altro, avendo già espresso – in maniera sublime! – tutto quello che poteva dire già a inizio anni Duemila.

Il meta-racconto presenta una buona scrittura, decisamente solida e articolata. Dalle prime battute che introducono la storia non si capisce bene cosa si sta guardando, un ricercato senso di straniamento fa subito dubitare lo spettatore e lo accompagna dentro la nuova Matrix assieme a un redivivo Neo – una sorta di variazione sulla falsariga del primo capitolo. Siamo da subito attraversati da un dubbio, rinfocolato per il buon primo quarto del film, che ci spinge a non capire se quello che stiamo osservando sia reale, se quello sia il vero Neo, oppure no. Buoni e ben congeniati i dialoghi, sincero ponte di unione con la trilogia in alcuni passaggi, in altri passaggi rischiano però di essere troppo artificiosi e forzatamente metafisici. La scelta di inserti videoludici e di un aggiornamento delle terminologie informatiche (es. agenti sostituiti da bot) sono scelte molto coraggiose che rendono la storia più attualizzata e comprensibile nonostante le molte metafore.

L’abilità narrativa e di scrittura del quarto capitolo non trova però il giusto peso sotto l’aspetto dell’azione e della fotografia. I bullet time dei primi Matrix possono essere ampiamente apprezzati, soprattutto se visti come una delle caratteristiche fondanti dell’opera. Un tono in più di azione, unendo la felice esperienza della mattanza al cardiopalma che si era potuta ammirare su Revolution, non avrebbe guastato. I combattimenti sono passabili ma nulla che faccia trattenere il fiato. Se ne contano quattro, in altrettanti momenti del film, e nessuno di questi entrerà come icona in qualche museo del cinema.

La fotografia non sembra quella di Matrix. I colori sono più caldi, vago ricordo dei claustrofobici primi capitoli, l’ambientazione goth-urbana è un ricordo lontano; la scelta della palette cromatica sembra aver lasciato spazio ad una copia prezzolata figlia dell’IMAX di ultima generazione. Il vecchio Matrix è bello ancora oggi, oltre vent’anni dopo il primo capitolo e quasi a venti anni di distanza dal secondo e dal terzo, perché sporco e visivamente disturbante: il mondo digitale in cui si muovono gli esseri umani addormentati è specchio della nostra sordida realtà, non solo in termini sociali ma proprio in termini fisici. Il mondo fuori da Matrix, nei primi tre capitoli, era altrettanto sporco e rozzo: i vascelli volanti degli umani erano un’accozzaglia di ferro e umori, vere trappole per lo stesso equipaggio. Sulle nuove navi sembra di viaggiare su una specie di Enterprise targata Dacia! Da un punto di vista dell’immagine il quarto capitolo tradisce – almeno a livello formale – alcune scelte che avevano reso i primi capitoli – il primo su tutti! – così iconici.

La storia si svolge decenni dopo il terzo capitolo e abbiamo una spiegazione tutto sommato convincente dello sfondo che fa da contorno alla vicenda: il conflitto tra macchine e umanità si è evoluto, le macchine sono sempre più assetate di energia, nonostante la pace instaurata dopo il sacrificio di Neo. E va bene, stiamo pur parlando di un futuro post-apocalittico riletto in chiavo moderna e distopica (nda!). L’aspetto che potrebbe non convincere è la soluzione di un redivivo agente Smith praticamente in pensione, che deposta l’ascia di guerra per non si sa quale motivo preciso, a parte qualche forte sentimento di riconoscenza verso il Thomas Anderson che lo ha liberato, entra ogni tanto sulla scena prima sabotando il protagonista, poi vestendo i panni del deus ex machina. Se la trama funziona e ingrana risulta essere un po’ meno abbordabile la riscrittura di un personaggio così evocativo come l’agente Smith, un caposaldo della trilogia che aveva una tridimensionalità e uno spessore fuori dal comune.

Rispetto al vecchio Matrix perdiamo quella che era la nemesi fondante rappresentata dell’agente Smith, il perfetto contraltare per l’eroico protagonista. La malvagità pura, eppure – a suo modo – estremamente logica, del cattivo che ottiene una sua libertà e sceglie di non sottostare alle regole del gioco, per perseguire il suo personale istinto di odio verso gli umani, viene completamente dimenticato – o non rispolverato – in questo quarto capitolo. Talmente oltre il concetto di binarismo (buono o cattivo?) troviamo l’agente Smith in orbita fuori dallo schermo, tanto non possiamo più circoscriverlo in categorie definite all’interno della storia. Troviamo oltre la barricata un poco credibile Neil Patrick Harris alias l’Analista che, per quanto dotato di stile e classe, non potrà mai ereditare il ruolo del cattivo-nemesi dal sapore epocale che aveva il suo predecessore. Peccato.

Il pregio del nuovo Matrix risiede nel “non se ne sentiva il bisogno ma potevano farlo peggio”. L’unica cosa che lo salva a pieno titolo è il sospiro di sollievo a fine proiezione, nella speranza fermino qui il progetto e non vogliano lanciarsi una nuova trilogia. Il film è godibile, molto lungo ma non esagerato nel complesso. Si sente la mancanza dei vecchi personaggi, sopra ogni cosa l’agente Smith originale. Pregio più grande il gioco metanarrativo che fa citare Matrix dentro Matrix, creando un cortocircuito che rende molto più concreto e tangibile lo spaesamento del protagonista e dello spettatore; in questa direzione anche il simpatico siparietto del brainstorming su cosa sia Matrix e quale filosofia lo sottenda, con una cascata di stereotipi, luoghi comuni, e teorie varie, amplifica l’interessante gioco di matriosche che alimenta la storia.

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