recensione di Mattia
Sangiuliano
La scala di grigi che
tinge le storie – e i tratti – dell'indagatore dell'incubo, ben
si presta a questa tipologia di racconto che ha per oggetto proprio
il grigio squallore della vita umana burocraticamente vista come
oggetto, ingranaggio sostituibile di un meccanismo impazzito, ma
perfetto, proprio nel suo macabro e disumano funzionamento. L'essere
dis-umanizzato non è che numero gettato in pasto al dio della
produzione, che tutto serializza e ottimizza; uomo, dunque, come mero
produttore e consumatore; queste le uniche due caratteristiche
“sociali” a lui riconosciute.
Critica sociale sulle
pagine di Dylan Dog, una stoccata nel pieno stile dell'Indagatore
dell'incubo. Soggetto e sceneggiatura di Alessandro Bilotta
sull'onda delle tematiche sempre care all'inquilino di Craven Road –
e ai suoi lettori. È il dramma umano di una malattia a-sociale che
germina nella frenesia della società post-moderna: stringe e
spersonalizza gli individui, soffocandoli, gettando nell'oblio il
loro essere (umani), i loro sogni, desideri; divengono nient'altro
che macchine di carne reificate. Questo è solo il primo passo verso
la totale dissoluzione in quel panorama di totale impoverimento della
vita.
Fabrizio de Tommaso,
dalle copertine di Morgan Lost, ci regala splendide e tragiche tavole
in bianco e nero per una storia grigia e fosca, cupa. Tutto l'incubo
di questo mese condensato in una storia di ordinaria follia e
corruttela che vuole rappresentare questa nostra “ricca” società
moderna e presuntuosa. Uno spaccato di un'umanità che ha smarrito sé
stessa tra le pieghe del profitto, scendendo a patti con il
compromesso. Che prezzo ha la libertà di essere? Quale prezzo si può
dare alla propria vita, al proprio tempo, guardando oltre il facile
conformismo?
Si vive per lavorare o si
lavora per vivere? Quale ruolo svolge il lavoro in una società in
cui da diritto umano – di cittadinanza – diviene dovere
economico? Dovere verso un'istituzione che nega, a sua volta, la
libertà e i diritti? Dramma disumano che si svolge in una società
che ci vuole consumatori. Il lavoro ci rende liberi. Liberi
consumatori che nel loro giorno di riposo si riversano nelle
cattedrali moderne: nei centri commerciali. Quello stesso lavoro
oppressivo che fa perdere contatto con la realtà e le sue varietà
multiformi, astrae e uniforma tutto al tutto, in un giogo da cui
sembra impossibile liberarsi.
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