venerdì 14 novembre 2014

Quel mostro sulle spalle. La solitudine sociale.

di Mattia Sangiuliano

Grigia solitudine - Fabio Boccalon

Una via di fuga, per sottrarsi a qualcosa che non ci piace, che non vogliamo affrontare, qualcosa che ci opprime, ci spaventa, ci condiziona; una punizione verso qualcun altro, una vendetta. Attraverso una selva di immagini e cliché prende corpo il cosiddetto "gesto estremo", il luogo comune, il parto di un immaginario che deve, in qualche maniera, circoscrivere il dramma – una parola talmente sbronza di retorica, da far perdere il contatto con la realtà dell'accaduto.

Eppure cosa c'è di reale in tutto questo? In questa caccia a presunti fantasmi domestici, misteriosi risvolti di una vita privata che deve essere spaginata in faccia a un pubblico passivo, tra dichiarazioni e ricostruzioni, forse niente; l'edulcorazione della vicenda stordisce, è un colpo sferrato in pieno petto; toglie il fiato. Tutta la vicenda diventa il teatrino dell'irrealtà.

Un suicidio in una località di provincia; un ventitreenne che si toglie la vita con un colpo di pistola, in casa sua, in una città di neppure trentamila abitanti. Il passaparola tra amici e conoscenti diffonde la notizia, l'accompagna la paginetta online della cronaca locale, tinta di nero, diffusa e condivisa (thanks-to-share-it?) su e tra i profili facebook dei conoscenti. Anche io apprendo così dell'accaduto.

C'è chi parla, chi borbotta, chi si domanda "perché?"; ci sarà da qualche parte – e c'è sempre, un esponente di questa nutrita fauna di individui – chi si domanderà "perché no?", è colpa dello Stato, della crisi, dell'economia; nell'equazione mentale di molte persone il fantomatico "gesto estremo" è una soluzione logica, il risultato di una somma algebrica; un'azione ammirabile per taluni, la condensazione del pensiero "ci vuole un gran coraggio per ammazzarsi". E molti lo pensano davvero.
Nessuno sembra accorgersi di quel mostro di solitudine che appollaiato sulle spalle di ciascuno, sembra ingrassare cibandosi del disagio individuale, divenendo un'escrescenza tumorale, sempre più ingombrante, sempre più oppressiva e dannosa, può colpire chiunque; un senso di colpa comune e apparentemente invisibile ma estremamente diffuso.

Vado a ricercare un passo di un libro di Vittorino Andreoli, La violenza, a sostegno della tesi di come l'essere uomo sia l'unica specie in grado di commettere il suicidio in maniera attiva, distinguendo tra un “suicidio rapido” e uno “lento”:
«Ci si suicida di solito prima nello spazio mentale, dove si esegue con precisione e ripetutamente l'operazione che poi, spostandosi nello spazio fisico, porterà alla morte. La freddezza dell'esecuzione è frutto dell'abitudine maturata nei continui suicidi fantastici, il gesto progressivamente si automatizza, perde di emotività, come se morire fosse ormai familiare. La sua iterazione nello spazio mentale può dargli addirittura un effetto piacevole. In questo gioco di morte, insensibilmente, il gesto si sposta sul teatro del tempo e la corda non è più solo di fantasia, ma di canapa; circonda il collo mentre si è appesi su una sedia che poi, buttata via, lascia appesi, con il dolore di non poter più continuare a suicidarsi.»

No man is an island, scriveva John Donne; nessun uomo è un isola. Il “coraggio” non proviene semplicemente dal singolo è bensì una miscellanea di cause esterne che confluiscono verso un'unica direzione, sotto il peso di un'asfissiante oppressione. È la società che riesce a infondere il "coraggio", a far nascere e crescere l'intenzione di farla finita. Il "coraggio" non è allora più tale, è il frutto di qualcos'altro; è l'esasperazione, l'alienazione, la colpa di una malattia sociale; il suicidio quando avviene non è semplicemente morte volontaria del singolo, non è un intento autolesionistico portato all'estremo o, ancora, non è solo violenza verso di sé; è omicidio da parte di una società che non è in grado di ascoltare l'individuo; il modello proposto – nel mare di modelli – non è più a misura d'uomo; il singolo deve adeguarsi al flusso, alle istanze, alla massa, pena l'alienazione, l'esclusione, una malattia sociale strisciante: l'individuo che non trova posto in modelli che, non sono – e non possono essere – ritagliati su misura per lui, viene limitato nella possibilità di intrecciarsi con il flusso di relazioni che scorrono attorno e, infine, escluso da ogni possibilità di relazione, spinto a ritrarsi dalla società.
Il sociologo francese Émile Durkheim, in un suo noto saggio di fine ottocento (Il suicidio. Studio di sociologia; 1897), parla di “suicidio egoistico” per definire quella tipologia di suicidio che si verifica quando l'individuo non è sufficientemente inserito nel tessuto sociale.

È l'omologazione, per dirla pasolinianamente, che striscia entro la società e, da tutte le parti, avvolge e stritola con le sue spire l'individualità del singolo, il bisogno di ritagliarsi un modello slegato da vincoli determinati, la paura e l'orrore di ritrovarsi diverso ed escluso, isolato; si manifesta la sensazione della colpa.
Il "gesto estremo" non è altro che una logica conseguenza, per i più, e forse è vero; ci si concentra però unicamente sulle cause interiori che spingono l'individuo, sottraendolo parzialmente dal contesto sociale in cui l'individuo si muove.

La famiglia allargata diviene famiglia nucleare, così mentre la società si allarga, mentre la famiglia non solo come istituzione viene frammentata, il singolo è la porzione corpuscolare che deve adeguarsi a un flusso molto più ampio e indistinto della “famiglia sociale” retta dalle proprie leggi. La famiglia perde i suoi confini, la possibilità di arginare l'indeterminatezza, di fornire un appiglio cui aggrapparsi per poter condensare il flusso della corrente in un'immagine fissa e stabile.

La famiglia è il primo teatro della tragedia, il fondale dipinto a tinte fosche, il luogo e lo scenario, non più sistema di valori, è il capro espiatorio che non si sa come giudicarlo – fa sponda il giornalismo interessato, indiscreto, spettacolare che deve trovare il sensazionalismo in ogni risvolto.

Ci muoviamo nella società degli spettatori, di coloro i quali sono chiamati ad assistere, commentare il fatto, la cronaca nera, anestetizzati dal peso della violenza e da istanze e categorie troppo strette ma che riescono, semplificando di volta in volta, a rendere tutto più logico e sequenziale.
Balzano agli occhi le solite frasi, le solite requisitorie, gli stessi identici discorsi che in centinaia di migliaia di articoli uguali o simili riproducono la stessa celebrazione eucaristica, lo stesso identico salmo, la medesima litania. È un rito mediatico.

Un interrogarsi vuoto e autoreferenziale, il culto del dettaglio, della ricostruzione; si ricostruisce una vicenda di dolore domestico, di pagina in pagina le supposizioni si alternano, è tutto volto alla probabilità. Il diritto alla cronaca sovrasta il dolore, è ronzio sordo e distratto cui ci siamo abituati, un rumore di sottofondo che ammorba la quotidianità. È un rumore stridente che porta all'assuefazione collettiva, sovrasta ogni altro suono, si trincera dietro frasi fatte, stereotipi da utilizzare all'occorrenza. Si osserva la vicenda di cronaca nera di turno, ci si pongono le solite domande, si muovono le solite opinioni; è spettacolo anche questo in fondo.

L'infelicità del singolo, quello stato d'animo che ha portato al famigerato gesto estremo è movente, occasione e corpo del delitto. L'infelicità è il frutto della depressione del singolo – sequenzialità – di un'intrinseca causa interna che rende logico, agli occhi del pubblico, il gesto. Il fulcro è la capacità del grande pubblico di immedesimarsi.

Nel suo saggio del 1930 intitolato Il disagio della civiltà, Freud si interrogava sulle frustrazioni, che la ricerca della felicità comporta.
La felicità è un qualcosa di estremamente soggettivo eppure cerchiamo di imporre la pretesa di oggettività al nostro modo di sentire e percepire il mondo attorno a noi, facendolo aderire al nostro vissuto:
«noi avremo sempre la tendenza a concepire la miseria oggettivamente, cioè a immetterci in quelle condizioni con le nostre pretese e la nostra sensibilità, per poi stabilire quali occasioni vi troveremmo di sperimentare sensazioni di felicità e di infelicità.»
Il rapporto felicità-infelicità, così come i concetti di depressione e senso di colpa, sono correlati allo stesso disagio che l'individuo prova entrando a contatto con una struttura plurale e sociale.

L'essere umano si muove in un contesto sociale ben definito. Dalla sua comparsa sulla terra l'essere umano è stato spinto dall'istinto d'associazione e si è stretto in comunità come similmente fanno molte specie animali; comunità via via più complesse hanno preso vita e si sono sviluppate; la vita dell'individuo è stata scandita da regole sempre più rigide, si è sviluppata la civiltà, entità propria, specifica della storia dell'essere umano; l'uomo ha costituito un nucleo retto dalla socialità, mediante delle leggi e caratterizzato da un grado di complessità ben diverso dalla spontanea aggregazione che sottende il rapporto tra animali della stessa specie e ben che meno specie diverse spinte da una possibile aggregazione mutualistica:
«la parola civiltà indica l'intera somma delle opere e delle istituzioni in cui la nostra vita si distacca da quella dei nostri antenati animali e che servono a due scopi: a proteggere l'uomo dalla natura e a regolare i rapporti degli uomini tra loro.» (Freud)

L'uomo è stretto all'interno di un sistema di convenzioni e regole che, allo scopo di costituire la “famiglia umana”, le leggi e i meccanismi di controllo, atti anche a mortificare il singolo, hanno l'obiettivo di imbrigliare – nel tentativo di eliminarle – le pulsioni aggressive e quelle erotiche. L'individuo deve aderire a modelli sociali ben definiti. Questa è la scaturigine del disagio dell'individuo in seno alla società.

Ci si interroga poco sulle cause, quando si cerca di scavare le motivazioni si gratta solo la superficie, si studiano soltanto categorie superficiali e generali, è ciò che genera lo spettacolo; interrogarsi su quanto sia malata una società alienante è altro, non è adatto ad una platea massimalista; il colpevole non può essere la società, o la legge sociale che può arrivare a mortificare il singolo, deve essere una causa interna.

«Sembra quasi che la creazione di una grande comunità umana riuscirebbe nel modo migliore se non ci fosse bisogno di preoccuparsi della libertà del singolo.»

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