recensione di
Mattia Sangiuliano
"Raccontare per la storia, Narrative for the history", Anna Bravo; Giulio Einaudi Editore, per la collana Lezioni Primo Levi, 2014, p.211, €18.
«Indietro, via di qui, gente
sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia.
Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto
panni.»
(4
febbraio 1984)
Il
superstite – Primo Levi
«Del resto mi è
odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o
vivificare immediatamente la mia attività» (Goethe
– Lettera a Schiller). Queste sono parole del poeta tedesco Goethe riprese qualche decennio più tardi da Friedrich
Nietzsche e poste in esergo ad una breve opera dalla non scarsa
importanza per le materie filosofiche e storiche. Tale
opera, scolasticamente poco citata – ben che meno letta – viene
collocata nel periodo “di mezzo” di Nietzsche, in quel periodo
posto tra la giovinezza della prima fase del suo pensiero, e la nota
terza fase, di quella maturità che lo figura armato di martello,
intento ad abbattere i pilastri tutti della filosofia. La sua fase
“di mezzo” è connotata dall'alto grado di sintesi di
un pensiero filosofico indirizzato verso la costruzione e non verso
la distruzione.
Prosegue
così l'incipit della sua opera “Sull'utilità e il danno della
storia per la vita”, datata 1874 nota anche come “Seconda
considerazione inattuale”:
«Con
queste parole Goethe, come un ceterum censeo energicamente espresso,
può cominciare la nostra considerazione sul valore e la mancanza di
valore della storia.»
Si
delinea già dalle battute iniziali, la volontà del filosofo, non
ancora trentenne, di indagare ed esaminare come la «febbre
divorante» rappresentata dall'ansia di assimilare un sapere storico
sia, in realtà, nient'altro che una forma di ipertrofia, un dannoso
eccesso che, dalle parole di Nietzsche, ben si confà alle
caratteristiche dei famelici tedeschi del suo tempo. Parimenti
dannosa è la carenza di storia o di senso storico; anch'essa, come
la prima situazione, va a detrimento della vita. Ma in che modo la
storia può arricchire la vita?
Raccontare,
narrare, testimoniare; tre parole apparentemente sinonimiche nel
presentarsi al pubblico ma estremamente diverse nel loro rapportarsi
con la storia. Ciascuna è portatrice di un proprio bagaglio di
categorie che ne caratterizza il contenuto e le modalità di
presentazione. Tre sinonimi per tre identikit di individui simili tra
loro ma estremamente diversi per dei tratti particolari.
Primo
Levi, nel corso della sua vita, è stato tutti e tre e nessuno dei
tre in particolare; cantore dei campi di concentramento,
dell'universo concentrazionario, narratore in grado di intessere vite
e storie pregne di un insegnamento ricco di valore, testimone
dell'olocausto ebraico, del genocidio e, non da ultimo, chimico
orgoglioso del proprio mestiere.
A
questi tre aspetti del suo rapportarsi con il materiale storico –
cantore, narratore e testimone – è doveroso aggiungere il suo
essere stato vittima innocente; un oppresso privo di colpa – così
come le altre vittime dei Lager.
Dopo
la liberazione Primo Levi è tornato alla civiltà; con la
riguadagnata libertà ha potuto reimmergersi nella vita, nel suo
mondo di affetti e di legami, tornando al suo interesse primo: la chimica. Lasciandosi alle spalle la dolorosa esperienza
dell'olocausto? A quanto pare no.
Così
fosse stato non avremmo mai potuto conoscere la potenza e il vigore
dell'opera magna di Levi, “Se questo è un uomo”
(Einaudi), la sua forza espressiva, così come non avrebbe potuto
toccare con mano la vita dei detenuti dei campi di sterminio nazisti,
le torture, la disumanizzazione, la violenza, che portò al massacro
di milioni di vittime, quell'universo fatto rivivere nelle opere e
negli interventi che videro Levi come protagonista.
«Una
tentazione in cui si può cadere a proposito di Primo Levi è
considerarlo l'icona del Grande Testimone. Sarebbe fargli torto.
Un'icona è per definizione sempre uguale a se stessa, cristallizzata
intorno a un solo significato, mentre Levi è stato sì un grande
testimone, ma al tempo stesso un poeta, un saggista, un narratore che
si è misurato con temi diversi dalla Shoah.»
Con
queste parole inizia il recente saggio di Anna Bravo, Raccontare per la storia, edito da
Einaudi, per la collana Lezioni Primo Levi (2014, p.211, €18)
L'opera
di Anna Brava si compone di tre capitoli, tutti minuziosamente
suddivisi in paragrafi tematici che affrontano determinate questioni
e aspetti legati al rapporto tra Levi e la storiografia
dell'olocausto; a questi va aggiunta una nutrita appendice che
fornisce spunti e approfondimenti inerenti al tema. Come in tutti i
libri della collana “Lezioni Primo Levi” anche questa è
arricchita dal testo italiano e da una sua traduzione in inglese.
Anna
Bravo contestualizza la vicenda di Primo Levi, la sua breve
esperienza come partigiano interrotta dalla cattura e dalla
conseguente deportazione in quanto ebreo; non mancano i riferimenti
alle lentezze della storiografia dell'epoca in materia di olocausto;
viene rievocata la sua posizione contro l'eccezionalismo. Nel terzo
capitolo, che ha per oggetto il rapporto fra “storiografia e
giudizio morale”, compare la tematica del nosismo e l'importante
tematica della “violenza dei giusti”, che trovò ampio spazio
nelle pagine scritte da Levi.
Nucleo
centrale delle 211 pagine del libro è il secondo capitolo: “La
zona grigia”; capitolo fondamentale, essenziale non solo in seno
alla struttura dell'opera ma capitale per la codificazione e la
comprensione del pensiero dello scrittore piemontese e dello stesso
codice Levi. A questo vengono dedicate ben 57 pagine e, in appendice,
viene riportato l'omonimo secondo capitolo dell'ultima opera scritta
da Levi: I sommersi e i salvati (Einaudi).
La
“zona grigia” è quell'area «dai contorni mal definiti,
che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi.
Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga
in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare»
(I sommersi e i salvati
p.29). Nel rapporto storiografia-narrazione di fatti reali, emerge la
potenza di questa categoria di cui Levi ha la paternità. Raccontare
fu per Levi la capacità di interrogarsi sulla storia e per la
storia, di dar forma alla storia stessa e all'esperienza vissuta;
così riuscire a far emergere la propria esperienza di vita dalla
messe di dati della storia porta Levi ad andare oltre gli stereotipi
del dramma dell'olocausto; la realtà dei fatti storici è molto più
complessa, non può essere semplificata – e in questo senso la zona
grigia non vuole essere semplificazione come non vuole essere
esplicazione della tragedia. La “Zona grigia” è un'entità
complessa che corrode e annienta gli individui, i prigionieri;
nessuno è al sicuro, nessuno, nel sistema infero del Lager, può
sottrarsi al contagio del potere. E Levi ne è lucidamente
consapevole.
Ecco
allora che si manifesta con più forza il valore dell'esperienza di
Levi, un uomo come tanti che è tornato ma che ha avuto la forza di
raccontare, di narrare, di parlare e giudicare la storia, la sua
storia personale e la storia di quell'orrore che ha colpito l'Europa
e il mondo. Oltre a questo il testimone non è chiamato a
confrontarsi solo con la storia e con la sua esperienza, deve bensì
portare la testimonianza delle vittime, dei “testimoni integrali”
che non sono riusciti a sopravvivere: i sommersi. Il compito dei
salvati dunque, anche loro individui che difficilmente riescono a
sfuggire alle strette maglie della zona grigia, è quello di portare
questa testimonianza.
La
lucida analisi offerta dalla Bravo al lettore – attingendo a una
nutrita bibliografia anche internazionale –, esamina anche il
binomio storia-memoria, e con la memoria è chiamata a confrontarsi
anche la “zona grigia” di Levi:
«Con
una chiarezza fino ad allora mai raggiunta negli studi sulla Shoah,
Levi introduce una doppia connessione: fra privilegio e memoria, fra
privilegio e sopravvivenza» (p.55)
Il
giudizio di Levi è impietoso, verso gli altri come verso sé stesso,
verso chi è riuscito ad ottenere un seppur minimo privilegio ma
sufficiente da consentire di sopravvivere all'abominio
concentrazionario.
Il
confronto non è più allora quello squisitamente inteso fra il
testimone e la storia, bensì quello tra il testimone e la memoria,
una memoria che nel corso degli anni – dal dopoguerra in poi, con
l'emergere di una cultura fondata su queste tematiche – si
arricchita di stereotipi ed è stata fissata in un'immagine fissa.
A ciò
ha contribuito «da un lato, il lungo disimpegno diffuso fra gli
storici, specie italiani aveva fatto ricadere sulla memoria dei
testimoni un ruolo di supplenza. Dall'altro testimoniare non
significa più riempire un vuoto, significava fare i conti con un
pieno di immagini che venivano da libri, da film, da serie tv, da
vecchi e nuovi “automatismi mentali” e da nuove o simil-nuove
teorie filosofico-storiografiche» (p.55).
Nietzsche
non mancava di sottolineare, nella sua seconda inattuale, come il
“senso storico” portasse infelicità e fosse dannoso in quanto
volesse inglobare il materiale storico senza alimentare lo scontro
fra questo e la vita; fonte di felicità allora, e arricchimento per
la vita, diventa il poter sentire in modo non storico.
L'attività
del narratore-testimone quale era Levi, chiamato a confrontarsi con
la storia e, soprattutto, con la sua storia, non vuole essere
reazione in difesa della memoria; bisogna poter muovere un giudizio
critico, poter conoscere, valutare ed esprimersi in merito ai fatti,
rielaborando categorie superando gli stereotipi. “Raccontare per la
storia” significa dare forma alla storia, farla rivivere,
utilizzando a tale scopo gli strumenti del narratore e quelli del
testimone; andando oltre l'intenzione di mera compilazione e
eruditismo la storia diviene vita.
Nessun commento:
Posta un commento