giovedì 27 gennaio 2022

Poesia “La tregua” di Primo Levi: la cicatrice inguaribile dei superstiti

La poesia che apre il secondo libro-testimonianza di Primo Levi è caratterizzata dalla persistenza del terrore instillato dal Lager. I sopravvissuti non portano solo il ricordo dell’esperienza passata; la cicatrice di quello che hanno subito scavano profondi solchi nell’anima dei superstiti.

analisi e commento di Mattia Sangiuliano


 

La Tregua

 

Sognavamo nelle notti feroci

 

Sogni densi e violenti

 

Sognati con anima e corpo:

5

tornare; mangiare; raccontare.

 

Finché suonava breve sommesso

 

Il comando dell’alba;

 

«Wstawać»;

 

E si spezzava in petto il cuore.

10

Ora abbiamo ritrovato la casa,

 

il nostro ventre è sazio.

 

Abbiamo finito di raccontare.

 

È tempo. Presto udremo ancora

 

Il comando straniero:

15

«Wstawać».

 (11 gennaio 1946)


Sognavamo la tregua, la fine del conflitto, nelle notti inclementi in cui neppure il riposo poteva darci requie dalle torture che eravamo costretti a subire durante il giorno. Prendevano corpo sogni realistici e feroci che ci colpivano in profondità, nell’anima e nelle membra, tanto erano realistici: tornavamo alle nostre case, mangiavamo, raccontavamo quanto accaduto e quanto subito. Ci ridestava però il perentorio ma impercettibile comando della sveglia mattutina: «Wstawać», “alzarsi” in polacco. Il tornare alla crudele realtà ci faceva sprofondare nella disperazione. Ora siamo tornati a casa, ci siamo sfamati, abbiamo concluso i nostri racconti. È giunta l’ora fatidica, ne siamo certi; come allora sentiremo presto il comando pronunciato in polacco: “Alzarsi”.

Il componimento, datato 11 gennaio 1946, presenta molte analogie con la poesia sorella che apre il primo libro di Primo Levi, l’omonima Se questo è un uomo. A differenza del primo componimento Levi problematizza un problema specifico del Lager e del successivo ritorno alla – evanescente e impossibile – normalità. Nella poesia che apre Se questo è un uomo Levi coagula, in un breve componimento-ammonimento, una grandissima quantità di esperienze che da sole potrebbero perfettamente riassumere una buona parte del racconto; in questa seconda lirica-testimonianza scende invece più nel dettaglio di aspetti psicologici complessi evocandoli con una precisione scientifica, non una sola parola risulta essere verbosa o caricata di espressionismo retorico. Nella poesia La tregua manca completamente l’esortazione che invece caratterizza il primo componimento. In poche e semplici immagini Primo Levi riesce non solo a evocare alcuni aspetti della vita all’interno del Lager ma fornisce – e questa è l’intenzione principe – tutte le coordinate psicologiche per comprendere la paura e la condizione dei sopravvissuti.

Da un punto di vista formale va segnalato che, escludendo il primo verso, costituito dal titolo attribuito al componimento – e al libro che lo contiene – la poesia è costituita da 14 versi che possono essere divisi in due stanze costituite ognuna da 7 versi, in cui l’ultimo, per entrambe le sezioni, è costituito dalla parola straniera «Wstawać». Per quanto concerne la metrica i versi sono molto liberi ma non mancano un abbondare di endecasillabi (vv. 2, 9, 10, 12, 13), tre decasillabi (vv. 4, 5, 6 – anche se l’ultimo non presenta un accento tonico sulla nona sillaba), ottonari (vv. 3 e 11) e settenari (vv 7 e 14) in chiusura di sezione, prima della parola polacca.

I versi sono spesso legati tra loro da un sapiente uso della punteggiatura che fornisce un andamento più discorsivo. La poesia si apre subito con un’anastrofe in cui “la tregua” viene fatta risaltare – divenendo addirittura la prima parola del componimento –; troviamo un’altra importante anastrofe poco prima della chiusura della prima sezione (vv. 6-7) che determina una contrazione del verso 7 che diviene molto simile al vero 14 (entrambi settenari) e caratterizzati dalla parola “comando” in apertura.

La poesia presenta alcune anafore che, stilisticamente, contribuiscono a rendere più solido e razionale il tessuto del racconto: abbiamo la parola “sogno” declinata in “sognavamo” (v. 2), “sogni” (v. 3), “sognati” (v. 4) in apertura dei rispettivi versi che, nella prima parte del componimento, rimarcano la dimensione onirica e di sospensione dalle atrocità del Lager, una dimensione fittizia, un non-luogo sospeso dal tempo e dallo spazio, un’apparente momento di tregua che non può allontanare l’orrore dal deportato fatto testimone; egli, infatti, una volta tornato, dopo aver saziato l’appetito – sottoposto a un persistente digiuno durante la prigionia – dovrà soddisfare il bisogno di raccontare (vv. 5 e 12).

Le immagini della prima e della seconda parte sono bilanciate. La sequenza dei tre verbi all’infinito “tornare; mangiare; raccontare” racchiusa in un solo verso (v. 5) viene ripresa ed esplorata nella seconda parte della poesia in altrettanti versi: “abbiamo ritrovato la casa” (v. 10), il “ventre è sazio” (v. 11) e “abbiamo finito di raccontare” (v. 12).

Da un punto di vista contenutistico la poesia è caratterizzata da un preciso bilanciamento di immagini antitetiche (vita e morte, sogno e veglia) i cui confini tendono a sfumare. È presente, inoltre, un continuo rincorrersi di temi ed emozioni all’insegna dell’alternanza (orrore della prigionia, libertà e, di nuovo, paura della segregazione). I sopravvissuti non portano solo il ricordo dell’esperienza passata, la cicatrice di quello che hanno subito ha scavato nell’anima e nella psiche.

La parola chiave è la tregua che da avvio al componimento; la sospensione dal conflitto, il riposo dalle continue atrocità, la dimensione del sogno in cui si torna a casa, viene interrotta dallo “Wstawać” del campo. Una volta che si è tornati a casa il presentimento che si tratti ancora una volta di una tregua è ormai certezza: presto o tardi un nuovo “Wstawać” costringerà i superstiti – nessuno escluso – ad aprire gli occhi e li farà ripiombare nell’incubo del Lager.

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