L’appello della società civile, e di diverse forze politiche, per il rispetto della legge 194 deve scontrarsi contro il muro di un'amministrazione di destra, sempre più ottusa, che non si interroga sulle cause reali della denatalità e sfrutta il tema per scagliarsi contro il diverso.
di Mattia Sangiuliano
Coerente con il proprio programma politico – nonché con la
dottrina che non si cura di nascondere – la giunta regionale di – estrema –
destra insiste nel propagandare e perpetrare una politica becera edificata
sulla pelle delle donne, decidendo così di vietare la pillola RU
486 nei consultori.
Il Presidente della regione, Francesco Acquaroli, già
ampiamente biasimato dall’opinione pubblica in campagna elettorale per i trascorsi
che lo vedevano tra i partecipanti di una famosa cena organizzata dai “nostalgici”
– si legga pure fascisti – del ventennio più buio della storia patria, è ora
alla guida di una maggioranza tutt’altro che moderata: un vero e proprio
focolaio di casi umani che, abiti a parte, sfoggiano costumi non troppi distanti
da quelli del famigerato Jake Angeli dell’assalto al Campidoglio statunitense.
Ancora una volta il tema dell’aborto viene derubricato dai
più – ed erroneamente – come una pratica equiparabile ai sistemi
contraccettivi. Ancora una volta i diritti conquistati con innumerevoli battaglie
non sono al sicuro dagli scomposti attacchi di falangi reazionarie ed oscurantiste.
Il pensiero – si fa per dire – della destra conservatrice viene
esposto direttamente nel Consiglio regionale dal Capogruppo di Fratelli d’Italia,
Carlo Ciccioli, che probabilmente rimasto agli anni ’20 del
secolo scorso esordisce con un «oggi la vera battaglia da fare è per la
natalità».
Un pensiero semplice e lineare, quanto unto e insozzato da
una neppur troppo velata apologia. Il pensiero corre immediatamente all’arretratezza
economica e civile dell’Italia degli anni ’20 del secolo scorso, funzionale al regime fascista,
la cui parola d’ordine era ruralizzazione e si sposava – consolidando il rapporto fascismo-chiesa dei patti lateranensi
– con l’esaltazione del matrimonio e dell’istituto della famiglia. Questa era
la sintesi della politica per lo sviluppo demografica del fascismo, scaturita
dall’idea – già allora anacronistica – dell’identificazione della potenza di
una nazione con il numero dei suoi abitanti.
Per poter rendere possibile questa politica il regime
ostacolò il lavoro delle donne ed il processo dell’emancipazione femminile,
istituì premi per le coppie più prolifiche e, nel ’27, istituì una tassa per i
celibi. La donna veniva così degradata e reificata a mera incubatrice per la
patria, vedendo scomparire quel poco che si era guadagnato nel decennio
precedente in tema di diritti – ad esempio sul lavoro.
In linea con la politica totalizzante che il fascismo
perseguiva, diffondendosi in ogni aspetto della società civile, istituì le
proprie strutture organizzative rivolte alle donne: i fasci femminili, le
piccole italiane e le evocative massaie rurali, la cui principale funzione era
valorizzare le virtù domestiche della donna relegandola nella tradizionale dimensione
di angelo del focolare.
Eccola dunque l’idea di società che agogna il fino Ciccioli
che, proseguendo nella sua vaneggiante dissertazione in consiglio regionale,
materializza l’acerrimo nemico del centro-destra (dove la parola “centro” è
meramente eufemistica): «Non posso accettare che siccome la nostra società
non fa figli allora possiamo essere sostituiti dall’arrivo di persone che provengono
da altre storie, continenti, etnie»
Si manifesta il paradigma della fantomatica “sostituzione
dei popoli” che fa gelare il sangue ai seguaci della pasta all’aglio e olio – rigorosamente
di ricino[1].
L’appello della società civile, e di diverse forze politiche, per l’applicazione e il rispetto della legge 22 maggio 1978, n.194 sembra impantanarsi sempre
di più in una regione spostata a destra che dimostra di non aver neppure letto
il primo comma della legge che tutela la procreazione[2]; un'amministrazione regionale
sempre più ottusa che non si interroga sulle cause reali della denatalità e sfrutta
il tema dell’interruzione della gravidanza per scagliarsi contro il diverso.
Una regione, le Marche, in cui il numero degli obiettori di coscienza è da capogiro,
praticamente la maggioranza di quelli in servizio.
Se si analizzano i dati provincia per provincia si apprende
che gli obiettori di coscienza sono il 90% a Fermo, l’82% ad Ascoli, 69% a
Macerata ed il 67% a Pesaro e ad Ancona.
Chi commenta le dichiarazioni della maggioranza regionale
paventa un ritorno al Medioevo. Ascoltando attentamente le parole proferite in
consiglio regionale sembra invece che ci stiamo addentrando a rapidi passi
verso un pietoso revival del famigerato ventennio. E non mi riferisco a quello
berlusconiano.
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