Sequenze di azione e combattimenti adrenalinici ben curati, una trama fatta di spionaggio e giochi di potere in una vivida Berlino di fine anni '80. Questo è il mix che mette in scena Atomica Bionda.
Atomica Bionda, tratta dalla
graphic novel The coldest city, è una
spy story estremamente curata sotto il profilo dell’ambientazione storica,
azzeccata nel cast, e caratterizzata da una buona dose di azione in un climax
ascendente di combattimenti via via sempre più serrati, a mani nude o alla lama.
Il filone del film d’azione rimanda a quel Jhon Wick diretto dallo stesso David Leitch e da Chad Stahelski. Sul
versante della spy story invece sembra ammiccare al celebre I tre giorni del condor diretto da Sydney Pollack, per quella
storia di spionaggio senza esclusione di colpi (anche fisici, per quanto
riguarda la nostra bionda) e di voltafaccia, persino sotto fuoco amico.
Vediamo una bellissima e letale Charliz Theron in forma smagliante e
atletica nei panni di Lorraine Broughton un agente dell’MI6 britannico al
servizio di sua maestà, inviata in una fredda Berlino nel novembre del 1989 per
recuperare un orologio contenente importanti informazioni relative alle spie
che hanno dato il loro contributo nella guerra fredda. Inutile dire come questo
oggetto conteso tra inglesi, tedeschi dell’ovest e sovietici dell’est sia una
preda molto ambita, in grado di cambiare le sorti dell’Europa e del mondo nel
periodo subito precedente il crollo del muro.
Contatto della nostra atomica
protagonista è David Percival, alias James
McAvoy, direttore della sede di Berlino da così tanto tempo da essersi
mescolato – anche troppo bene – agli usi e costumi dettati dalle dinamiche che
sottendono lo spazio all’ombra del grande e imponente muro che divide est ed
ovest, il mondo sovietico dalla Berlino occidentale. Talmente dentro le
dinamiche di potere da aver fatto propria una significativa citazione di
Machiavelli che ben si presta a riassumere e descrivere la pellicola intera: «colui che inganna troverà sempre chi si
lascerà ingannare».
Il prologo ci catapulta in quella
che sarà l’atmosfera del film; un uomo mezzo svestito, in vestaglia, corre per
le strade di una fredda Berlino di fine anni ‘80 sferzata dalla neve. Capiamo
che qualcosa non va, l’uomo ha il fiato rotto: è inseguito. Presto verrà
raggiunto ed eliminato. La vittima è un agente inglese dell’MI6, il sicario una
sua controparte sovietica. Obbiettivo del russo è un orologio che la vittima ha
indosso. Un inizio che neppure troppo lontanamente sembra ricordare quello della
trasposizione cinematografica del Watchmen (2009) di Alan Moore, per la regia
di Zack Snyder, con l’eliminazione del Comico.
Facciamo poi la conoscenza
dell’agente Lorraine, in una stanza di Londra, intenta a medicarsi le ferite
dopo il suo ultimo incarico. Qualche minuto e si capisce che la missione che
sta cercando di lavarsi di dosso è quella che, tra poco, ci andrà a raccontare
– facendo rapporto ai suoi superiori. Inizia così il flashback dei suoi “giorni
berlinesi”, dal momento dell’assegnazione dell’incarico, di fronte ai superiori
che l’hanno reclutata, sino al suo primo incontro-scontro con un non troppo
gentile comitato di benvenuto firmato DDR al suo arrivo nella capitale tedesca.
E di lì a breve la conoscenza dell’atipico David.
Per quanto concerne la sondtrack
del film c’è poco da dire: è il fiore all’occhiello dell’intero progetto,
accanto a scenografie, vestiti e colori che rispecchiano perfettamente la più
che fedele ambientazione storica e culturale di quegli anni, nulla sembra
essere stato lasciato al caso; le musiche sono un mixtape dei più grandi
successi degli eighties, un
susseguirsi di tracce che ti catapultano dentro la storia facendoti respirare
l’aria berlinese del 1989: tra The Clash, David Bowie, The Queen, Depeche Mode
e gli immancabili Eurythmics con la loro “Sweet
Dreams”.
Non solo spy story ma
riuscitissimo film d’azione in cui la protagonista si destreggia agilmente
sfoderando volteggi ed acrobazie, di scazzottata in scazzottata, schivando – e
prendendo, nda – colpi su colpi, per
pregiate sequenze dall’alto tasso adrenalinico: complice il piano sequenza che,
con la camera incollata su Charliz, segue tutti i suoi movimenti e le
concatenazioni di mosse che, sempre in ambienti claustrofobici, la impegnano in
una girandola di evoluzioni, usando anche armi non convenzionali che capitano a
tiro, ingaggiando gruppi di nemici che si fanno sotto – e cadono – uno dietro
l’altro.
Spicca senza ombra di dubbio per
la sua crudezza lo scontro che si svolge dentro una palazzina prima del crollo
del muro, forse la sequenza di combattimento più lunga della pellicola, capace
di farti stare incollato allo schermo senza battere ciglio; o ancora l’ultimo
scontro prima della conclusione che ha il sapore del regolamento di conti.
L’epilogo finale rimette a posto gli ultimi tasselli del mosaico, andando a
confermare la citazione principesca di David e il suo ruolo di eminenza grigia
all’interno di questa spy story; ritratto perfetto del calcolatore di
professione. Un ruolo veramente calzante, per il protagonista di Split (2017).
Le coordinate temporali di
incipit, preambolo ed epilogo delimitano lo svolgimento di una trama curata e
calcolata ancorata saldamente al tessersi del racconto-nel-racconto. È un
intreccio ben misurato, aggrovigliato ma non complicato, che rende bene
l’immagine del “nido di vespe” in cui l’agente Lorreine è stata spedita dai
suoi superiori, per riportare un ordine impossibile; sequenze al cardiopalma,
scandite da combattimenti violenti e senza esclusione di colpi, sono il
coronamento di un’intensa e riuscitissima storia capace di mescolare
sapientemente spionaggio ed azione.
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