recensione di Mattia
Sangiuliano
Benvenuto –
ufficialmente – a Gigi Cavenago, a lui e alla sua prima
prova come copertinista designato per la testata regolare di Dylan
Dog, dopo il saluto del suo predecessore ormai qualche mese fa. Buona
prova – la prima – di Gigi che consacra il suo approdo sulle
copertine di Dylan Dog presentandoci la sua versione della sacra
famiglia dell'Indagatore dell'Incubo, con tanto di un Dylan in trono
accompagnato dal suo fidato assistente.
Sempre in copertina, ai
piedi dello scranno, troviamo uno spettrale bambino che, senza troppa
difficoltà, possiamo far coincidere con lo stesso inquilino di
Craven Road. Attraverso questo bambino Paola Barbato recupera
un buco – quasi una voragine – del passato di Dylan, in
osservanza della linea adottata dalle sceneggiature di questi ultimi
mesi, incentrate sul gettare luce attorno alle vicende dell'ombroso
antefatto del nostro protagonista – nonostante ben trent'anni di
storie!
Motore della storia un
particolare ricordo rimosso, sepolto sotto le scorie del tempo, la
sfumatura acquarellata dell'infanzia appena visibile sotto le fosche
tinte della maturità; l'eco di una voce, proveniente da un'età in
cui sogni e fantasia si confondono con la realtà, riporta Dylan Dog
al suo passato, in quella dimensione in cui la purezza e il candore
non sono esentati dagli incubi, ma che, a loro modo, riescono a
creare barriere in grado di tenerli lontani.
Gli
amici immaginari da tempo dimenticati tornano ad animare i ricordi, e
il presente, di Dylan. Dal passato giunge anche un'altra voce, un
grido strozzato, proveniente da un baratro in cui era stato
scaraventato, chiede di essere ascoltato; una disperazione, a cui era
stato imposto il silenzio, ormai tramutatasi in rabbia, assottiglia
il labile confine posto tra giustizia e vendetta, magistralmente
incarnato dalle tinte e dai temi scelti dalle chine di Giovanni Freghieri.
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