recensione
di Mattia Sangiuliano
Un
albo che avrebbe lasciato il segno, già alcune indiscrezioni e rivelazioni lo
avevano detto. Siamo felici di constatare che nessuno di questi propositi sia
rimasto disatteso. Evento di rilievo la comparsa nella scuderia bonelliana di
un interessante autore dello stampo di Ratigher alla prosa, con una
sceneggiatura – o spartito – dal ritmo cadenzato e deciso, ricalcando le note
dei Led Zeppelin, per la storia di questo mese.
Una
storia ispirata, una melodia orchestrata su una vicenda a tratti surreale che,
oltre lo struggimento, tinta da una punta di follia e di irrealtà appena
velata, si rivela invece per la sua lucida realtà. Un album musicale con le sue
tracce a cadenzarne l'ascolto, più che un'esecuzione divisa in movimenti. E la
musica è citazione e motore di questa vicenda ai confini della speranza. Una
speranza evanescente, un'eco che giunge da profondità ormai insondabili,
dimenticata sul fondo di una rassegnazione abissale. O forse no?
Paure
e pregiudizi fanno vacillare la speranza; la sonnolenta vita di provincia
specchio dell'intera umanità per i suoi risvolti: la crudeltà irreale proprio perché
ordinaria, il dolore atroce che non sa trovare una spiegazione e pretende un
colpevole. L'inadeguatezza e l'insicurezza, il muoversi con passo claudicante
sotto il peso di sguardi pronti a giudicare. Un cuore sanguinante per una
perdita, disgustato dal mondo che lo circonda. Un Dylan Dog a difesa delle
deboli, umane, comprensibili passioni, dovrà scontrarsi con le debolezze e
l'orrore che sono in grado di evocare.
Più
che un'indagine dylaniata – nello stile dell'inquilino di Craven Road – una
scampagnata fuori mano, quattro passi sul fondo delle paure e degli orrori di
crudeltà che l'umanità è capace di ingenerare; un abisso senza nome che ha
inghiottito la speranza, il buco nero che assorbe e digerisce la sanità e la
sensibilità dell'essere umano in quanto tale. L'orrore ci accompagna, e ci
sommerge se non sappiamo come usare quella stessa speranza che
provvidenzialmente ci assiste.
Siamo
di fronte non a una storia ordinaria dell'indagatore dell'incubo, teniamo tra
le mani un musical che prende le mosse da un orrore a poco a poco sempre più
definito – basta guardare l'eccezionale copertina di Angelo Stano –; lo sguardo vaga sulla distesa sterminata della crudeltà umana, Ratigher
dirige il copione per una storia semplice e lineare, subordinando l'indagine,
mettendola in secondo piano; i dialoghi sono orchestrati mettendo in scena il
dramma intimamente umano, lacerato e contraddittorio. Alcuni passaggi sono
degni di nota.
Una
storia teatrale, tutt'altro che surreale dunque, in consonanza con
l'altrettanto originale prova data dalle tavole di Alessandro Baggi,
capace di giocare con il formato bonelliano – addirittura “rompendo” con
l'orrore una pagina intera (la 76) o arricchendo l'albo con altre esplosive
incursioni a tutto campo –, fautore di un espressionismo che è in grado di far
risaltare l'atmosfera altalenante e gli stessi personaggi anche grazie ad un
uso non ortodosso del retino, stravolgendo i volti, rendendoli quasi
caricaturali, in consonanza con l'iperrealismo orchestrato da Ratigher.
Nessun commento:
Posta un commento