giovedì 29 maggio 2014

Quando gli eroi tornano alla terra.

recensione di Mattia Sangiuliano

“Un paese ben coltivato”, Giorgio Boatti; Editori Laterza 2014 per la collana i Robinson/Letture, 18€ p.264.

In Italia, ogni giorno, cento ettari di terreno agricolo vengono persi per sempre, divorati dalle costruzioni.
Questo spiega perché dal boom economico a oggi la superficie agricola è scesa da 18 a 13 milioni di ettari. Si riducono i campi coltivati e l'Italia, che aveva raggiunto la piena autonomia alimentare, sta dipendendo sempre più dagli altri. Persino per il pane non siamo più autosufficienti: il 60 per cento del frumento tenero lo importiamo dagli Stati Uniti e dall'Ucraina, dalla Francia, dalla Germania e perfino dall'Austria. [p.10]

Un moto di scoramento sembra trasparire già nel primo capitolo di questa sorta di romanzo-inchiesta nato dalla penna – o dal portatile – del giornalista e scrittore Giorgio Boatti. Una piccola nota di sconforto prende forma da questo flusso di informazioni che il giornalista, avventuriero solitario attraverso l'Italia, raccoglie rimbalzando da Nord a Sud, dall'Adriatico agli appennini. Flussi di informazioni ma soprattutto di storie concrete, scovate nei meandri di realtà troppo sovente e abitualmente abbandonate a sé stesse, lontane dal normale scorrere delle vicende del nostro tempo; realtà e storie di persone che, armandosi di coraggio e pazienza, sono tornate nei campi, sulla terra, nel cuore delle proprie rispettive regioni per cercare di costruire qualcosa.
Boatti si muove in questo mondo interpretando quello che è il diffuso e necessario bisogno fondamentale di ripartire, facendolo da una sorta di ground zero; non a caso, sottotitolo del libro è “viaggio nell'Italia che torna alla terra e, forse, a se stessa.”

Una riflessione molto personale quella di Boatti o, meglio, sorta di folgorante illuminazione che lo spinge ad iniziare un cammino, come avvenne un anno prima con la pubblicazione di un'altra sorta di diario itinerante – per certi versi fratello di questo – a viaggiare per la penisola alla ricerca di informazioni inerenti a santuari e monasteri sparsi per l'Italia, interrogandosi sulle vicende e la storia delle singole realtà.

In questo viaggio, l'anima del giornalista ansioso di scoprire, è il protagonista; curioso e dubbioso di tutto, pronto a domandare e domandarsi, di seguire itinerari tracciati e, non di rado, in grado di lasciarsi andare, sospingersi e farsi trascinare da un'intuizione sulle ali di un presentimento. In questo modo si muove nella sua ricerca.

Viene qualche dubbio sulla liceità di poter definire questo libro un “saggio” o, parimenti, un “romanzo”; quello che si stringe tra le mani è una commistione di questi due generi in una sorta di diario, curato, dettagliato, di informazioni e allo stesso tempo di notevoli e mai fuorvianti digressioni; descrizioni compaiono ad ogni voltar di pagine, invece di annoiare hanno la capacità di concentrare l'attenzione sulla vicenda dello scrittore che si muove in un divenire di scoperte e di emozioni, accanto a quel solitari viaggiatore che attraversa l'Italia, raccogliendo sguardi, storie, sensazioni, emozioni ma, soprattutto, impressioni.

“Il paese ben coltivato” è un sintagma che si trova più volte nel libro di Giorgio Boatti, è il culmine dell'idea che spinge il giornalista, primattore e autore, a mettersi sulle tracce di questa realtà inizialmente vagheggiata; non è la ricerca di un luogo preciso, di un modello topico che lo spinge a viaggiare per l'Italia, armato di cartine e del fidato portatile, del telefono cellulare con un poco professionale navigatore oppure a cavallo della sua auto; quello che spinge la ricerca è la prospettiva stessa del viaggio.
Il viaggio come sorta di accumulazione di esperienze progressive è la somma di quella stessa prospettiva che si rispecchia nel coraggio di tutte quelle persone che, rimboccandosi le maniche sono volute tornare alla terra, raccogliendo una sfida che così in controtendenza coi tempi non lo è affatto.

La crisi allora, quella brutta ed economica, prende sfumature e sfaccettature diverse; in filigrana si legge una crisi che colpisce i singoli si alimenta di autocommiserazione e impotenza, e proprio contro questa sembrano lottare con coraggio e caparbietà alcune figure che compaiono nell'avventura di Boatti. Ancora, un'altra crisi è quella dei valori tradizionali, da una parte la perdita di gesti e valori che sono sinonimo di una tipicità storica del “cultivar” di determinate coltivazioni all'italiana, destinate all'estinzione in quanto soppiantate dall'importazione di varietà più competitive e, soprattutto, più economicamente vantaggiose per il consumatore; da qui, per chi raccoglie la sfida, il coraggio di gettarsi nella creazione di un vero e proprio brand, un marchio sintomo di tradizione e rispetto, in primo luogo, verso la terra stessa e di chi quei frutti li porta in tavola.

L'innovazione sposa così la tradizione. I campi mutano: le coltivazioni che ospitavano un tempo, ormai soppiantate dalla concorrenza, ora si spostano verso altri impieghi produttivi.
È drammatico constatare come, sovente, sotto i nostri occhi si stagliano pannelli di quell'orrido e selvaggio fotovoltaico a terra, frutto di una legislazione barbara che ha sacrificato ettari ed ettari di SAU contaminando e portando all'estinzione di molte tipicità agricole. Parimenti la cementificazione selvaggia di porzioni sempre più ampie di territorio – quando invece si potrebbero creare soluzioni volte al ripristino di quello che già c'è ma è in disuso – denota una tipica collusione tra sfere di interessi, tutta italiana, che va proprio a danneggiare, in primo luogo, l'ambiente, il territorio, e le tipicità che in esso sono contenute.

Altre volte sono forme di colture tra le più variegate che intervengono per cambiare forma al paesaggio senza danneggiarlo e senza perdere la tradizione, ma introducendo determinate e mirate modifiche: il terreno viene suddiviso, razionalizzato con maggiore efficacia, si introduce l'orticoltura, la coltura in serra che racchiude i pomodori, vengono introdotte altre varietà di fragole, si sacrifica una gran quantità di tempo ed energia nel nord con una rischiosa ma – quando riesce – splendida e soddisfacente risaia; l'idea del brand da esportare si incontra con molteplici prospettive, tra le coltivazioni più quotate gli alberi da frutta o, addirittura, la floricoltura poi indirizzata, esportata, verso il mercato olandese.

Boatti si interroga con il suo stile sui generis, narrando in prima persona le sue impressioni, mettendosi al centro del racconto, dal suo punto di vista descrive e si stupisce parlando al lettore di un mondo agricolo mai scontato e in continuo divenire da cui l'Italia può rialzarsi; la narrazione è tutto, se si pensa a un saggio summa di informazioni si è fuori strada, basti pensare che nel libro non sono presenti neppure bibliografie, note a pié di pagina, indice dei nomi o glossari; questo anche perché sarebbe inutile, le informazioni sono tutte nel viaggio compiuto dal protagonista.
Boatti attraversa così l'Italia rimbalzando qua e la, mette se stesso in prima persona, parla di sé e di quella che è la sua esperienza, la sua impressione di uomo, prima di tutto curioso di tutto e capace di stupirsi di fronte allo spettro della realtà, conscio che un cambiamento è in atto grazie a tanti piccoli eroi che hanno deciso di tornare alla terra, per tentar di far deviare la rotta.

E chi saranno i protagonisti di questo cambiamento? Cosa li potrà sostenere in questa sfida che non coinvolge solo il Pil e l'export, la tradizione e l'innovazione, il lavoro e la qualità (anche dell'ambiente), ma riassume qualcosa e più duraturo che ci riguarda tutti? [p.11]

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