recensione di Mattia
Sangiuliano
“Un paese ben
coltivato”, Giorgio Boatti; Editori Laterza 2014 per la collana i Robinson/Letture, 18€ p.264.
In Italia, ogni
giorno, cento ettari di terreno agricolo vengono persi per sempre,
divorati dalle costruzioni.
Questo spiega perché
dal boom economico a oggi la superficie agricola è scesa da 18 a 13
milioni di ettari. Si riducono i campi coltivati e l'Italia, che
aveva raggiunto la piena autonomia alimentare, sta dipendendo sempre
più dagli altri. Persino per il pane non siamo più autosufficienti:
il 60 per cento del frumento tenero lo importiamo dagli Stati Uniti e
dall'Ucraina, dalla Francia, dalla Germania e perfino dall'Austria.
[p.10]
Un moto di scoramento
sembra trasparire già nel primo capitolo di questa sorta di
romanzo-inchiesta nato dalla penna – o dal portatile – del
giornalista e scrittore Giorgio Boatti. Una piccola nota di sconforto
prende forma da questo flusso di informazioni che il giornalista,
avventuriero solitario attraverso l'Italia, raccoglie rimbalzando da
Nord a Sud, dall'Adriatico agli appennini. Flussi di informazioni ma
soprattutto di storie concrete, scovate nei meandri di realtà troppo
sovente e abitualmente abbandonate a sé stesse, lontane dal normale
scorrere delle vicende del nostro tempo; realtà e storie di persone
che, armandosi di coraggio e pazienza, sono tornate nei campi, sulla
terra, nel cuore delle proprie rispettive regioni per cercare di
costruire qualcosa.
Boatti si muove in questo
mondo interpretando quello che è il diffuso e necessario bisogno
fondamentale di ripartire, facendolo da una sorta di ground zero; non
a caso, sottotitolo del libro è “viaggio nell'Italia che torna
alla terra e, forse, a se stessa.”
Una riflessione molto
personale quella di Boatti o, meglio, sorta di folgorante
illuminazione che lo spinge ad iniziare un cammino, come avvenne un
anno prima con la pubblicazione di un'altra sorta di diario
itinerante – per certi versi fratello di questo – a viaggiare per
la penisola alla ricerca di informazioni inerenti a santuari e
monasteri sparsi per l'Italia, interrogandosi sulle vicende e la
storia delle singole realtà.
In questo viaggio,
l'anima del giornalista ansioso di scoprire, è il protagonista;
curioso e dubbioso di tutto, pronto a domandare e domandarsi, di
seguire itinerari tracciati e, non di rado, in grado di lasciarsi
andare, sospingersi e farsi trascinare da un'intuizione sulle ali di
un presentimento. In questo modo si muove nella sua ricerca.
Viene qualche dubbio
sulla liceità di poter definire questo libro un “saggio” o,
parimenti, un “romanzo”; quello che si stringe tra le mani è una
commistione di questi due generi in una sorta di diario, curato,
dettagliato, di informazioni e allo stesso tempo di notevoli e mai
fuorvianti digressioni; descrizioni compaiono ad ogni voltar di
pagine, invece di annoiare hanno la capacità di concentrare
l'attenzione sulla vicenda dello scrittore che si muove in un
divenire di scoperte e di emozioni, accanto a quel solitari
viaggiatore che attraversa l'Italia, raccogliendo sguardi, storie,
sensazioni, emozioni ma, soprattutto, impressioni.
“Il paese ben
coltivato” è un sintagma che si trova più volte nel libro di
Giorgio Boatti, è il culmine dell'idea che spinge il giornalista,
primattore e autore, a mettersi sulle tracce di questa realtà
inizialmente vagheggiata; non è la ricerca di un luogo preciso, di
un modello topico che lo spinge a viaggiare per l'Italia, armato di
cartine e del fidato portatile, del telefono cellulare con un poco
professionale navigatore oppure a cavallo della sua auto; quello che
spinge la ricerca è la prospettiva stessa del viaggio.
Il viaggio come sorta di
accumulazione di esperienze progressive è la somma di quella stessa
prospettiva che si rispecchia nel coraggio di tutte quelle persone
che, rimboccandosi le maniche sono volute tornare alla terra,
raccogliendo una sfida che così in controtendenza coi tempi non lo è
affatto.
La crisi allora, quella
brutta ed economica, prende sfumature e sfaccettature diverse; in
filigrana si legge una crisi che colpisce i singoli si alimenta di
autocommiserazione e impotenza, e proprio contro questa sembrano
lottare con coraggio e caparbietà alcune figure che compaiono
nell'avventura di Boatti. Ancora, un'altra crisi è quella dei valori
tradizionali, da una parte la perdita di gesti e valori che sono
sinonimo di una tipicità storica del “cultivar” di determinate
coltivazioni all'italiana, destinate all'estinzione in quanto
soppiantate dall'importazione di varietà più competitive e,
soprattutto, più economicamente vantaggiose per il consumatore; da
qui, per chi raccoglie la sfida, il coraggio di gettarsi nella
creazione di un vero e proprio brand, un marchio sintomo di
tradizione e rispetto, in primo luogo, verso la terra stessa e di chi
quei frutti li porta in tavola.
L'innovazione sposa così
la tradizione. I campi mutano: le coltivazioni che ospitavano un
tempo, ormai soppiantate dalla concorrenza, ora si spostano verso
altri impieghi produttivi.
È drammatico constatare
come, sovente, sotto i nostri occhi si stagliano pannelli di
quell'orrido e selvaggio fotovoltaico a terra, frutto di una
legislazione barbara che ha sacrificato ettari ed ettari di SAU
contaminando e portando all'estinzione di molte tipicità agricole.
Parimenti la cementificazione selvaggia di porzioni sempre più ampie
di territorio – quando invece si potrebbero creare soluzioni volte
al ripristino di quello che già c'è ma è in disuso – denota una
tipica collusione tra sfere di interessi, tutta italiana, che va
proprio a danneggiare, in primo luogo, l'ambiente, il territorio, e
le tipicità che in esso sono contenute.
Altre volte sono forme di
colture tra le più variegate che intervengono per cambiare forma al
paesaggio senza danneggiarlo e senza perdere la tradizione, ma
introducendo determinate e mirate modifiche: il terreno viene
suddiviso, razionalizzato con maggiore efficacia, si introduce
l'orticoltura, la coltura in serra che racchiude i pomodori, vengono
introdotte altre varietà di fragole, si sacrifica una gran quantità
di tempo ed energia nel nord con una rischiosa ma – quando riesce –
splendida e soddisfacente risaia; l'idea del brand da esportare si
incontra con molteplici prospettive, tra le coltivazioni più quotate
gli alberi da frutta o, addirittura, la floricoltura poi indirizzata,
esportata, verso il mercato olandese.
Boatti si interroga con
il suo stile sui generis, narrando in prima persona le sue
impressioni, mettendosi al centro del racconto, dal suo punto di
vista descrive e si stupisce parlando al lettore di un mondo agricolo
mai scontato e in continuo divenire da cui l'Italia può rialzarsi;
la narrazione è tutto, se si pensa a un saggio summa di informazioni
si è fuori strada, basti pensare che nel libro non sono presenti
neppure bibliografie, note a pié di pagina, indice dei nomi o
glossari; questo anche perché sarebbe inutile, le informazioni sono
tutte nel viaggio compiuto dal protagonista.
Boatti attraversa così
l'Italia rimbalzando qua e la, mette se stesso in prima persona,
parla di sé e di quella che è la sua esperienza, la sua impressione
di uomo, prima di tutto curioso di tutto e capace di stupirsi di
fronte allo spettro della realtà, conscio che un cambiamento è in
atto grazie a tanti piccoli eroi che hanno deciso di tornare alla
terra, per tentar di far deviare la rotta.
E chi saranno i
protagonisti di questo cambiamento? Cosa li potrà sostenere in
questa sfida che non coinvolge solo il Pil e l'export, la tradizione
e l'innovazione, il lavoro e la qualità (anche dell'ambiente), ma
riassume qualcosa e più duraturo che ci riguarda tutti? [p.11]
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