lunedì 11 gennaio 2021

“L'uomo vestito di nero” un ‘nuovo’ vecchio racconto di Stephen King

Una storia estremamente avvincente che riesce a coagulare quanto di meglio il Re possa dare ai suoi lettori; un classico dell’orrore arricchito da una nuova e accattivante veste editoriale.

Recensione di Mattia Sangiuliano

"L'uomo vesto di nero" di Stephen King, Sperling & Kupfer, 2020, 123 pp, 15,90€


È uscito a novembre 2020 il nuovo racconto di Stephen King intitolato L’uomo vestito di nero. Il racconto è invece tutt’altro che nuovo e, a dire il vero, anche abbastanza datato. Il racconto era già noto in Italia nel 2002 sempre per i tipi della Sperling & Kupfer, nella ricca raccolta intitolata Tutto è fatidico. Un bel tomo di oltre cinquecento pagine in cui L’uomo vestito di nero era nientemeno che il secondo racconto.

La genesi del racconto deve essere fatta retrocedere di quasi un decennio, alla fine del secolo scorso. Il racconto vinse negli Stati Uniti il prestigioso premio letterario O. Henry nel 1996. Una prima pubblicazione dello stesso era inoltre avvenuta sul The New Yorker il 31 ottobre 1994 – con buona pace della notte di Halloween! – ricevendo un più che buon favore da parte del pubblico e della critica.

Il racconto viene ora riproposto dalla Sperling – che cura tutta l’opera italiana del Re – in una nuova veste editoriale. L’aggettivo nuovo, bisogna sottolinearlo, non è da porre in relazione al racconto ma all’aspetto dell’edizione che lo accoglie. Nella nuova e dedicata ripubblicazione troviamo il racconto di King impreziosito dalle tavole dell’illustratrice Ana Juan.


Un altro aspetto che rende il libro degno di menzione è il contenere in chiusura il racconto che ha ispirato Stephen King: mi riferisco al racconto Il giovane signor Brown (Young Goodman Brown) di Nathaniel Hawthorne del 1835. Leggendo il racconto in esergo si possono notare le significative analogie con quello scritto da King ma anche le molteplici differenze.

In L’uomo vestito di nero troviamo Gary, il protagonista, anziano e recluso in una casa di riposo, pronto a fare i conti con un’oscura vicenda del passato dato l’approssimarsi della fine imminente. Non è la prima volta che King sceglie un anziano come protagonista o narratore – uno su tutti il romanzo Inomnia del 1994 o il racconto Il bicchiere della staffa in cui il protagonista è un anziano che narra fatti antecedenti.

Nel “nuovo” racconto di King l’anziano protagonista è portato alla scrittura rispondendo al bisogno, alla necessità di liberarsi di un peso che lo ha accompagnato per tutta la vita. Comincia così a scrivere e a raccontare un fatto accaduto nell’estate del 1914 quando aveva solo nove anni e ne erano trascorsi tre dalla morte del fratello; si tratta di un fatto oscuro di cui il narratore conserva però un vivido, terribile, ricordo.

King si dimostra, già dalle prime poche righe, un narratore degno di questa definizione: lancia al lettore alcuni elementi – cronologici, topografici, biografici – che poi andrà a riprendere di volta in volta nel corso della storia, approfondendo ogni aspetto e fornendo una spiegazione più accurata di ogni cosa. Il lettore sprofonda senza accorgersene tra le fauci del libro che sta leggendo. Ogni elemento concorre a creare un’immagine limpida e cristallina della vicenda narrata.

Fulcro del racconto e motivo di sconvolgimento dell’intera vita di Gary sarà l’incontro del bambino con un uomo misterioso, un uomo – come suggerisce il titolo – ovviamente vestito di nero e dall’aspetto apparentemente impeccabile che però emerge inaspettatamente dal fitto della foresta. Nonostante la tenera età il giovane identifica subito l’uomo con il diavolo in persona.

Racconto estremamente avvincente e ben scritto che riesce a coagulare quanto di meglio il Re possa dare ai suoi lettori: all’impotenza della vecchiaia di fronte ad un male totalizzante fa da cassa di risonanza l’impotenza della giovinezza chiamata a confrontarsi con forze invincibili; la possibilità della salvezza risiede solo nel caso e in una sfacciata fortuna più che nelle capacità del singolo.

Il racconto di Hawthorne in chiusura, Il giovane signor brown, è davvero una chicca. Leggendolo si capisce subito perché King si sentisse in difetto di fronte ad un’opera scritta oltre un secolo e mezzo prima. In Hawthorne l’essenzialità scarna si sposa con il gusto del grottesco senza tracimare nel manierismo e, alla fine, è il non-detto a dare forma e certezza al male; il dubbio stesso che attraversa l’opera genera il più atavico e genuino orrore.

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