Gli elementi della letteratura fantastica ci sono tutti eppure definire l’opera come il massimo apice della letteratura surrealista non basta.
Recensione di Mattia SangiulianoLa papessa del diavolo, di Jehan Sylvius e Pierre de Ruynes; Castelvecchi editore, La biblioteca dell’Immaginario (p. 123).
«Scriviamo questo libro al bagliore delle Tre Lune, rallegrati dalla visione dei cataclismi futuri.
La Fine del Mondo si avvicina, la sventura ricada su coloro che si accaniscono a negarla in nome di una pretesa Ragione, miserabile palliativo alla loro impotenza mentale»
Con queste parole si apre uno dei più grandi e,
paradossalmente, misconosciuti capolavori della letteratura surrealista di
tutti i tempi. L’opera in questione è stata pubblicata a Parigi nel 1931 e
porta il significativo titolo de La papessa del diavolo. Un’opera
letteraria che, già dalla sua incerta attribuzione, si prefigura come un
racconto di non facile comprensione. Due quesiti agitano i suoi lettori: di chi
sono le quattro mani che composero questo scritto? E, ma non di minore
importanza, gli autori del testo vollero comunicare qualcosa di più oltre ad
un’immaginaria Apocalisse?
Jehan Sylvius e Pierre de Ruynes sono –
e al tempo stesso non sono – i due autori del racconto. Il secondo
sembra essere un nome dietro il quale si cela Robert Desnos, poeta
surrealista molto vicino al Breton che gettò le basi del Surrealismo; il primo
nome, quello di Sylvius, potrebbe essere un alter ego di Ernest Gengenbach,
scrittore controverso ed autore non solo di opere surrealiste ma anche di
diversi scritti legati all’occulto, in particolare al demonismo e al satanismo.
Recentemente però si è anche affacciata l’ipotesi che la penna dietro al nome
di Jehan Sylvius sia quella della poetessa dadaista, anarchica e pacifista, Renée
Dunan.
Nonostante l’attribuzione di questo racconto sia
ancora motivo di dibattito e di posizioni tutt’altro che ferree l’origine di
ambito surrealista è palese già dalle dichiarazioni interne all’opera stessa,
con chiari riferimenti e allusioni – più o meno esplicite – al panorama culturale
dell’avanguardia del 1920. Addirittura, nelle pagine finali del libro, mentre
il mondo viene inghiottito in una violenta e grottesca apocalisse sanguinaria
ed orgiastica, la stessa Papessa prende in mano e sfoglia L'immaculée
conception (L’Immacolata Concezione) firmata da André Breton e Paul éluard, pubblicata nel 1930.
In apertura de La papessa troviamo una dedica
che, anche all’orecchio non dimestico della lingua francese, risulta strana
quanto blasfema: A l’impérissable mémoire d’Alexandra VI Borgia Pape Paien[i].
Già da quel Alessandra si opera uno slittamento semantico che, non solo
crea un rimando al titolo femminile dell’opera – già di per sé provocatorio –,
ma sottolinea con maggiore enfasi l’aspetto dissacrante ed iconoclasta dell’intero
tessuto narrativo. Un vaticinio che gli autori regalano ai lettori in apertura
della loro opera.
E se il cave canem messo a guardia dei
cancelli del libro non bastasse a far desistere i lettori, possono esserlo le
parole degli autori del manifesto surrealista del 1925 in cui gli André Breton
e compagni scrivevano: «L’epoca moderna ha fatto il suo tempo. L’indole
stereotipata dei gesti, degli atti, delle menzogne dell’Europa sta a dimostrare
che il tempo del disgusto si è concluso». Toni apocalittici che sembrano
essere stati ripresi per la stesura dell’incipit de La Papessa.
L’intera opera è pregna di riferimenti escatologici rimandanti
alla fine del mondo per mano dei popoli orientali. Sempre nel manifesto
surrealista del 1925 si trova un ulteriore riferimento a quanto poi narrato ne La
papessa: «Spetta ai Mongoli ora accamparsi nelle nostre piazze», un
riferimento al crollo dei valori dell’Europa moderna, avvizzita nella
mondanità, e vittima di un’invasione che ne determinerà il definitivo crollo. Anche
in questo aspetto gli autori mirano a colpire l’immaginario della borghesia
moderna, instillando una paura ancestrale che non risparmia nessuna classe
egemone.
Il topos dell’invasione ad opera di genti straniere è
un archetipo frequente in gran parte della narrativa di carattere fantastico.
Ma non solo. Il tema stesso del decadimento dei costumi, dopo aver raggiunto un
apogeo di indiscusso splendore, è il motore che, una volta esaurito il suo
movimento ascendente, determina una rapida e vertiginosa caduta nell’abisso.
Dai racconti biblici in poi, ma già nei testi e nelle vicende antecedenti la
tradizione testamentaria, questo è un tema che affonda saldamente le proprie
radici nella storia della civiltà umana.
Gli elementi della letteratura fantastica ci sono
tutti eppure definire l’opera come il massimo apice della letteratura
surrealista non basta. Accanto ad una sferzante critica anti-borghese e
anti-ecclesiastica il romanzo pulsa di un’accesa visione agonica e polarizzante
di aspetti antitetici che si scontrano: uomo e donna, bene e male, Cristo ed
Anticristo, sensualità ed amore, violenza e mitezza; una forza attraversa e
cuce gli opposti in un gioco che vedrà, alla fine, l’annientamento totale come
unica prospettiva di rinascita.
Nel racconto La papessa del diavolo dadaismo,
surrealismo, e una picaresca varietà di elementi grotteschi ed erotici, assieme
ad una buona dose di cliché tipici della letteratura popolare e fantascientifica,
confluiscono in un’opera enigmatica – a tratti ermetica – che sembra suggerire
qualcosa di più al lettore che vi si accosta. A tratti si percepisce un mistero
celato tre le sue righe o, forse, solo l’ombra di un enigma che, non appena si
è sul punto di afferrare, si dissolve come una nuvola di vapore con tanto di
sberleffo.
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