venerdì 26 dicembre 2014

Anarchia e rivolta sociale in Dylan Dog

di Mattia Sangiuliano



«...per questo io scelgo voi compagni! Perché dalla sofferenza possiate trarre la forza di alzare la testa e di reagire ai soprusi del padrone!»


Dylan Dog, vegetariano e animalista (le due cose, in fondo, sono collegate), scapolo affascinante, donnaiolo impenitente. Non un investigatore in tinta noir con la canna fumante di una colt (la sua pistola infatti è una bodeo) sempre in mano; un idealista dalla parte dei più deboli e un pacifista convinto che disprezza la violenza e, di solito, proprio per questo non sempre riesce a sfangarla quando si scatena una scazzottata o, nel momento in cui la sua vita viene messa a repentaglio nel corso delle indagini, solo la fortuna riesce a cavarlo d'impiccio.

Chi si rivolge alle pagine di Dylan Dog in cerca di violenza gratuita ha certamente sbagliato indirizzo. Molte storie sono di una cocente attualità. Una volta – ma spesso anche ora – si guardava all'albo bonelliano in cerca di un po' di sano splatter, stile anni '90, e spesso le lamentele che si sollevano dalla fauna di lettori – solitamente proprio dai più navigati – sono da parte di chi sente sacrificato questo aspetto dell'indagatore dell'incubo.

L'Incubo però, come ben sa chi segue il fumetto della Sergio Bonelli Editore, è il vero protagonista delle storie di Dylan, non lo splatter o l'orrore (leggi horror) cui ci ha abituato il grande – o piccolo – schermo, con mostri di varie fattezze. L'orrore, in Dylan Dog, è qualcosa di più multiforme, ricco di sfaccettature, qualcosa di sottile, perturbante e invasivo, riconducibile ad un'unica massima perentoria che accompagna molte sue storie: i veri mostri sono gli esseri umani.

Non mancano però misteri ancestrali o ultraterreni a movimentare l'appartamento nella londinese Craven Road 7, assieme a vere e proprie apoteosi del caos; killer, bestie infernali, complotti, società segrete e orrori di vario genere a condire la routine di Dylan Dog con una buona dose di apocalisse che minaccia di sconvolgere Londra e il mondo – e non mi riferisco alle battute di Groucho.



Nonostante la rivoluzione torna il vecchio sapore di ambientazione U.K. nei testi – e sui fondali – di DD, con il beneplacito auspicio dell'era Recchioni. Anarchia nel Regno Unito è il titolo dell'albo numero 339, citazione e rievocazione – nonché traduzione! – di uno dei più noti testi dei Sex Pistols, icona del punk negli anni '70. Ed è ancora Londra a farne le spese, messa a ferro e a fuoco da un nutrito gruppo di rivoltosi.

«È una resa dei conti. Semplicemente. I poveri contro i ricchi. Giovani vessati da contratti di lavoro da fame contro un sistema che li stritola»


La rivoluzione – non solo quella editoriale – narrata nell'albo porta su di sé un sapore tutt'altro che anacronistico. Se nell'editoriale di apertura il curatore non esita a creare un solido parallelismo con il singolo dei Pistols, della seconda metà del '70, nell'albo si trovano molteplici riferimenti ad una cruda e attuala tematica che fa piombare il lettore in fatti estremamente contemporanei.

«non più uomini, ma schiavi a progetto. Coscienti di esserlo, per giunta!»


Leggendo la storia, osservando il sommovimento popolare tratteggiato, si potrebbe tranquillamente sostituire al Regno Unito un'altra qualsiasi città in cui i diritti dei cittadini vengono svenduti o calpestati, ad esempio l'Italia contemporanea: alla Londra di Dylan Dog una Roma teatro di scontri per le vie cittadine – se non addirittura una rediviva Genova 2001 –, sfondo e teatro perfetto per rappresentare i movimenti di protesta e i violenti scontri tra manifestanti e forze dell'ordine.

«Non a caso, il movimento si è ribattezzato “new slaves riot”. Le rivolta dei nuovi schiavi.»


Diviene manifesto il bisogno di insorgere contro i vessatori, di disgregare le maglie sociali che ci vogliono mansueti animali, per rivendicare la propria libertà di individuo e non di macchina in un processo consumistico e alienante volto a trattare lavoratore e lavoro come merci, un sistema che vuole trarre il maggior profitto possibile; un sistema che deve scartare ed eliminare i diritti del lavoratore: un ostacolo ed un costo inutile per chi deve trarre un guadagno sempre maggiore.

«Il diritto alla felicità dovrebbe essere scritto nelle pietre di ogni casa. Ma così non è, e non sarà mai, purtroppo.»


Un sentimento sottende la rivolta, è l'incubo di uno spettro insofferente che non può trovare requie, è una rabbia cieca e sorda che affonda le sue radici in una storia che è la somma di forze motrici che hanno spinto la classe dei lavoratori a rivendicare i propri diritti per un trattamento più equo ed umano, contro possidenti, proprietari di fabbriche e terreni, contro lo Stato e le forze dell'ordine che lo difendono, contro élite di privilegiati che sovrastano e soffocano arbitrariamente le classi inferiori; un parallelismo storico crea un precedente, la storia odierna ripropone tematiche e schemi di secoli addietro, di una storia fatta di soprusi e prevaricazioni. L'incubo prende forma in un sistema schiavistico che genera disuguaglianza e sfocia nel bisogno impetuoso di una rivalsa.

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