giovedì 1 maggio 2014

Le morti del primo maggio.

di Mattia Sangiuliano.

Nella calendaristica celebrazione di piccole festività, passa spesso inosservata la carica di valori che queste creano in un immaginario collettivo sovente abituato all'oblio, ad una sorta di delega di certi valori, celebrati ma annegati nell'abitudine di una parata che si svolge nella accettazione generale.
Viene alla mente la novella pirandelliana: “C'è qualcuno che ride”, novella ambientata nel mentre di una riunione seria, il giorno di carnevale, in cui i partecipanti vi prendono parte travestiti, in maschera – e qui il sottile ossimoro della vicenda che sottende l'intero breve racconto – eppure attori di una finta partecipazione collettiva e corale a un giubilo solo estetico, del tutto privo di un qualche vitalismo, o della pur minima partecipazione all'evento. Proprio nel mentre di quella attesa carica di preoccupazione, una risata rompe la sospensione generale gettando gli astanti nel panico collettivo; gli astanti erano colpevoli di aver accettato l'oblio collettivo aderendo ad una circostanza formale, nella coralità generale, senza porsi alcuna domanda sulla liceità di quel contesto.

La storia ricorda che il primo maggio 1886, gli operai e i sindacati organizzarono un grande sciopero a Chicago per rivendicare la giornata lavorativa di otto ore. A seguito di questo sciopero e proseguendo nell'intento di rivendicare i diritti fondamentali dei lavoratori, gli scioperanti si incontrarono ancora il 3 maggio di fronte alla fabbrica di mietitrici McCormick. Qui intervenne senza preavviso la polizia che, attaccando gli operai, causò due morti tra le fila degli scioperanti.
L'indignazione crebbe, un gruppo di anarchici locali distribuì copie di alcuni volantini e indisse un presidio presso Haymarket Square.
Il presidio incominciò il 4 maggio, sotto una leggera pioggia. August Pies parlò alla grande folla accalcatasi per l'evento. Il presidio si svolse in tutta tranquillità sotto gli occhi di un ingente gruppo di poliziotti chiamati a garantire l'ordine pubblico.
Improvvisamente, però, il gran numero di poliziotti incominciò a marciare verso i manifestanti, intimando alla folla di disperdersi. Fu a questo punto che un ordigno esplosivo scagliato contro la polizia causò la morte di un agente. Nell'attimo di panico che seguì la detonazione la polizia aprì il fuoco sulla folla, ferendo dozzine di persone e uccidendone undici. Sette agenti morirono a causa del fuoco amico.
Otto persone furono collegate alla protesta e alla morte dell'agente di polizia colpito dall'ordigno esplosivo. Cinque di questi erano immigrati tedeschi. A seguito del processo, in cui non furono portate testimonianze che legavano gli imputati al lancio dell'ordigno, la giuria emise il verdetto condannando a morte sette imputati, fra cui August Pies. Due di queste sentenze furono mutate in ergastolo. Louis Lingg si suicidò prima dell'esecuzione, accendendosi un sigaro imbottito di dinamite, introdotto nella cella, che non lo uccise sul colpo ma lo trascinò in una lenta agonia durata qualche ora.
August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, George Engel, sono i nomi dei quattro condannati a morte che perirono soffocati per via dell'impiccagione mal riuscita.
Spies, prima di venire impiccato pronunciò la celebre frase "verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che strangolate oggi".[1]

Analogamente, un altro primo maggio che porta su di sé un gran peso nella memoria di questa
celebrazione, ha un triste ricordo tutto italiano. Una drammatica vicenda che si svolge sullo sfondo della festa dei lavoratori del 1947, la prima celebrazione  dopo la liberazione italiana dall'occupazione nazifascista.
«Durante la festa dei lavoratori, 1.500 persone sono riunite nella pianura vicino a Portella della Ginestra, in Sicilia. Intere famiglie giunte da fuori stanno festeggiando il 1° maggio sopra carri allegramente dipinti quando all'improvviso, dalle colline, una mitragliatrice apre il fuoco. Undici morti (tra cui due ragazzini di 7 e 12 anni) e sessantacinque feriti sono il bilancio di quindici minuti di orrore.»[2]
Dietro all'attentato viene subito identificata la mano di Salvatore Giuliano, associato a vari fenomeni di banditismo del dopoguerra e legato al movimento indipendentista siciliano, armato dalla mafia; un attentato politico, ai danni del grande successo delle coalizioni delle sinistre unite, dei sindacalisti e dei contadini e operai che non volevano piegare la testa, ai danni della DC dell'isola, e a discapito del potere mafioso strisciante nella Sicilia del dopoguerra.
Molte tesi e testimonianze si sono avvicendate nel corso degli anni attorno alla vicenda della strage di Portella della Ginestra; la più recente – e grave – prende come riferimento i rapporti desecretati dei servizi segreti statunitensi dell'OSS e del CIC, in linea con quella che fu la tesi del leader socialista Pietro Nenni all'epoca della strage, ascrivendo l'attentato sulla scorta della vittoria elettorale delle sinistre de 20 e 21 aprile, ai danni strategia di contenimento del comunismo rappresentato dalla “dottrina Truman” avviata il 12 marzo dagli Stati Uniti.
«Se la versione ufficiale vedrà in Salvatore Giuliano l'unico esecutore della strage, la regia occulta è infatti da attribuirsi all'Office of Strategic Services (il servizio segreto americano comandato in Italia da James Jesus Angleton), con la collaborazione dei mafiosi e di elementi neofascisti reclutati dall'Oss e trasferiti in Sicilia qualche tempo prima.»[2]

Il presidio presso Haymarket Square e la conseguente condanna a morte di quanti, operai e anarchici, chiesero un trattamento equo e dignitoso, avvenne due secoli fa; la strage di stampo politico-mafiosa di Portella delle Ginestre, il secolo scorso. Due fatti sanguinosi, ma non i soli, che calpestano il ricordo di una battaglia per un trattamento più dignitoso ed equo verso i lavoratori di tutte le categorie, scesi in campo per lottare o nella celebrazione del diritto al lavoro, un diritto Costituzionale e inalienabile.
Nell'odierna indifferenza generale si manifesta l'adesione ad una rassegnazione collettiva che, troppo spesso si traduce in una spasmodica attesa in cui si parla di “costo del lavoro” e di “numeri” di vite umane; quando invece si hanno vittime di un meccanismo che reifica i lavoratori a mero strumento e carburante di un capitale spersonalizzante e schiavistico, radicato nei gangli della società e nella retorica della classe politica.
Dimenticando la sofferenza passata, aderendo al dolore collettivo senza porsi alcuna domanda, obliando il valore della lotta e il significato della vita umana, si completa il macabro cappio che si chiude attorno al dramma di una società che, ripiegata su se stessa, è vittima della rassegnazione.



[1] Fonte, qui;
[2] Trento, Francesco; “La guerra non era finita”, editori laterza (2014), p.55.

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...