di Mattia Sangiuliano
"Sono passati molti
anni, pieni di guerra e di quello che si usa chiamare la Storia".
Tra riflessione personale e meditazione sulle vicende storiografiche
appena concluse, l'incipit del romanzo di Carlo Levi, "Cristo si
è fermato a Eboli", ricorda molto l'avvio di quella che è
un'altra grande e indiscussa opera d'arte del panorama culturale del
secondo dopoguerra italiano; l'opera in questione, pubblicata cinque
anni dopo l'opera magna di Carlo Levi, è "La storia" di
Elsa Morante.
"La Storia, si
capisce, è tutta un'oscenità fino dal principio". Questa
frase, corredo dell'opera della Morante, sottotitolo delle prime
edizioni sintetizza, anch'essa, al pari di quella di Levi, un
profondo rapporto che intercorre tra il vissuto del singolo e quello
della collettività, secondo due punti di vista che rimangono
distinti ma, allo stesso tempo coincidenti; tra dramma personale e
collettivo, nell'opera di Elsa Morante; tra impotenza del singolo e
della collettività, nel romanzo di Carlo Levi.
“Il protagonista di
Cristo si è fermato a Eboli, è un uomo impegnato nella storia che
viene a trovarsi nel cuore d'un Sud stregonesco, magico, e vede che
quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono più,
sono in gioco altre ragioni, altre opposizioni nello stesso tempo più
complesse ed elementari.”
Così scriveva Italo
Calvino, sottolineando un aspetto della vicenda personale ed umana
che tornerà evidenziato da Giovanni Falaschi, il quale porrà
l'accento sull'origine torinese e quasi illuminata dello stesso Levi,
borghese per definizione, che "ha tratto dalla sua città il
senso aristocratico di una primogenitura politica rispetto alle altre
zone d'Italia, e il gusto di una cultura attiva e impegnata, il senso
pragmatico della conoscenza"; elementi insomma che hanno
preservato il Levi uomo "immune da compromessi personali durante
il lungo ventennio del fascismo".
Il punto di avvio del
romanzo, una sorta di incipit taciuto tra le spire del romanzo
stesso, è il dato biografico che fa coincidere l'opera con la vita
dello stesso Carlo Levi. Lo snodo cruciale nella vita-Storia di Levi
è proprio il suo essere recluso o meglio confinato, dal regime
fascista, in quanto oppositore, persona invisa, scomoda al regime,
dunque da rendere innocua. Il protagonista è un prigioniero, medico e artista, uomo di cultura che vede limitata la sua libertà personale, prigioniero del regime in un mondo lontano dalle sue radici.
L'avvio del romanzo presenta subito il
protagonista che viene a trovarsi di fronte all'ennesimo
trasferimento in quella costellazione di paesi della Lucania, in
quella sorta di perennemente dimenticato Meridione italiano. Su
questo punto concorderà tutta la critica: il romanzo di Levi esplose
come la grande opera che ebbe il merito di far conoscere, all'Italia
intera, la cosiddetta “questione meridionale”.
Proprio da questo dato
umano, personale, incomincia la vicenda vera e propria del romanzo di
Levi, un uomo, un protagonista, confinato, lontano dalla sua terra
natia, in quelle sperdute zone della Lucania, lontano dalla sua
Torino, sballottato tra quei paesi, di contrada in contrada, in
piccoli comuni di poche case di quel meridione sconosciuto e
selvaggio, "stregonesco", in quanto governato da un arcano
rapporto degli esseri umani con la vita e la natura, in cui le
persone, contadini, seguono il ciclo della luna, della natura,
lontano da un rapporto cristiano, nel senso anche religioso del
termine, in un legame attraversato da una superstizione magica con
ciò che li circonda. Continua Giovanni Faleschi, sottolineando come
dalla sua educazione familiare Levi sia in grado di trarre "quel
tono aristocratico del comportamento, che si potrebbe definire di
sicurezza anche nella solitudine, il senso del valore della posizione
individuale, nonostante il comportamento generale o «di
massa»". Prosegue ancora Faleschi evidenziando come proprio
"dall'origine israelitica della sua famiglia, di cui pure non fa
mai cenno nelle sue opere, Levi ha tratto la convinzione del
carattere universale della cultura, la conoscenza sicura della
Bibbia, e la natura profetica ed ecumenica del messaggio".
Un ritratto simile lo
regala lo scrittore Sartre, in un frammento di un articolo intitolato
«L'universale singolare», ponendo la iato su un Levi in grado di
sentirsi dappertutto "come a casa propria",
aggiungendo, "non per arroganza, certamente, o per spavalderia,
ma per una sorta di naturale adattamento della sua personalissima
vita alla vita quotidiana delle masse". Non solo "passione
di vivere" bensì "la passione della vita". Una
forza che lo attraversa portandolo ad accettare la propria condizione
di recluso, la propria Storia, in accordo con i dettami di una storia
universale.
E parlando di se stesso,
in una lettere indirizzata all'editore: "Era forse anch'esso un
altro, un giovane ignoto e ancora da farsi, che il caso e il tempo
avevano spinto laggiù, sotto quei gialli occhi animali, quei neri
occhi di donne, di uomini, di fanciulli [...] perché si trovasse
nell'altrove, nell'altro da sé, perché scoprisse la storia fuori
della storia, e il tempo fuori del tempo, e il dolore prima delle
cose, e se stesso, fuori dello specchio dell'acque di Narciso, negli
uomini, sulla terra arida".
Un'opera che parla di
iniziazione; un'iniziazione alla Storia.
“Non un romanzo ma come
diceva la stessa Morante, stordita dal chiasso e rintanata in casa a
curarsi le ferite, un manifesto, «un'azione politica». La
sconsacrazione. La condanna della Storia.”
In poche parole si
riassume la condanna senza appello alla Storia, in quella
requisitoria che la Morante fa scorrere attraverso brevi pendici che
corredano l'intera sua opera. E il dolore e le vittime della Storia
non sono solo i protagonisti che prendono vita nel romanzo, ma tutte
le vittime che la storia ha mietuto nel suo drammatico scorrere.
Come prosegue Garboli
qualche pagina dopo:
“in un romanzo fatto di
tanti destini promiscui, che si realizzano meticolosamente uno per
uno e vanno a perdersi come tanti scoli nella stessa fossa comune,
s'intravede una struttura rapsodica, a episodi, la carpenteria a
storie incastrate che è dei poemi epico-cavallereschi.”
Nel dramma collettivo ed
intimistico dei singoli, i personaggi presentati, quasi
paradossalmente - ma non troppo - come nota lo stesso Garboli,
sembrano i protagonisti di un ciclo di gesta, una chanson. Ed
effettivamente è proprio questo a rendere drammatica la vicenda: i
singoli personaggi sembrano essere personaggi di poemi cavallereschi.
Accanto alle vicende dei singoli, la cronaca della Storia vera e
propria, manifesta nella vicenda come l'impulso che fa tendere le
direttrici dei singoli verso il medesimo destino dove vittime e
carnefici non possono che confondersi nella disperazione di una
insensatezza che muove la Storia stessa.
Questo si capisce già
nel momento in cui si presentano i primi personaggi che si affacciano
sulla soglia del romanzo, o meglio sul palco della Storia stessa che
è lo scenario della vicenda. È questo il senso di ineluttabile
disfatta che muove le vicende della protagonista Ida Ramundo e del
suo aguzzino bavarese, accennato da pochi tratti, destinato, egli
stesso, a divenire vittima della storia poche pagine dopo il suo
crimine contro la stessa Ida.
Con un piccolo
specchietto viene introdotto il soldato tedesco.“Un giorno di
gennaio dell'anno 1941 un soldato tedesco camminava nel quartiere di
San Lorenzo a Roma. Sapeva 4 parole in tutto d'italiano e del mondo
sapeva poco o niente. Di nome si chiamava Gunther. Il cognome rimane
sconosciuto”. Anch'esso risucchiato e ingoiato nella Storia con il
suo crimine.
Un crimine che ha in sé
il peccato, la colpa che la protagonista femminile cercherà di
nascondere, come una malattia che essa stessa ha contratto,
similmente ai segni di una lebbra e che la porteranno a rifuggire la
sua stessa idea di innocenza, in quanto macchiata da una colpa
indicibile, inconfessabile; una malattia sociale di esclusione quasi
paragonabile a quella sua epilessia giovanile, che colpirà anche il
suo secondogenito, o la sua paura esistenziale in quanto donna con
radici giudaiche.
Ma come per un
contrappasso dantesco, dal ventre di Ida, macchiato da una colpa che
non le appartiene, non può che sbocciare Giuseppe, spensierata
creatura che accompagna sua madre nel dramma di una Roma occupata e
martoriata, tra aguzzini nazi-fascisti e il timore dei bombardamenti
alleati, in mezzo ad altri sfollati vittime della Storia, capace di
consolare quel dramma personale e umano con la sua timida
iniziazione alla vita.
Nel romanzo della
Morante, a differenza dell'opera di Levi, è significativo il valore
cronachistico della vicenda; in questo senso i capitoli del romanzo
sono le date, in cui, quasi come in
una tabula dealbata, rievocando il sottotitolo della prima edizione
“Uno scandalo che dura da diecimila anni”, vengono raccolte e
descritte le vicende dei sette anni in cui è ambientato il romanzo,
tra 1941 e 1947, collocandole tra un prima e un dopo imprecisati,
sottratti ad un passato appena accennato e un futuro identico a ciò
che è stato: segnati anch'essi, passato e futuro, da violenza e
soprusi. La vicenda di Ida, strappata al flusso del tempo altro non è
che una chiarificazione dell'insensatezza di quella Storia che scorre
sempre uguale tra le macerie che si lascia alla spalle senza curarsi
di chi trascina via, di chi svanisce tra i suoi flutti, senza un razionale perché; “E
la Storia continua”.
Come ricorda la stessa
Morante, in apertura del romanzo, citando un sopravvissuto di
Hiroshima:
«Non c'è parola, in
nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno
il perché della loro morte»
Bibliografia:
- Morante, Elsa: “La Storia”, Einaudi (2009)
- Levi, Carlo: “Cristo si è fermato a Eboli”, Einaudi (2010)
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