giovedì 3 aprile 2014

"La Storia" come dramma collettivo e personale, tra Levi e Morante.

di Mattia Sangiuliano

"Sono passati molti anni, pieni di guerra e di quello che si usa chiamare la Storia". Tra riflessione personale e meditazione sulle vicende storiografiche appena concluse, l'incipit del romanzo di Carlo Levi, "Cristo si è fermato a Eboli", ricorda molto l'avvio di quella che è un'altra grande e indiscussa opera d'arte del panorama culturale del secondo dopoguerra italiano; l'opera in questione, pubblicata cinque anni dopo l'opera magna di Carlo Levi, è "La storia" di Elsa Morante.
"La Storia, si capisce, è tutta un'oscenità fino dal principio". Questa frase, corredo dell'opera della Morante, sottotitolo delle prime edizioni sintetizza, anch'essa, al pari di quella di Levi, un profondo rapporto che intercorre tra il vissuto del singolo e quello della collettività, secondo due punti di vista che rimangono distinti ma, allo stesso tempo coincidenti; tra dramma personale e collettivo, nell'opera di Elsa Morante; tra impotenza del singolo e della collettività, nel romanzo di Carlo Levi.

“Il protagonista di Cristo si è fermato a Eboli, è un uomo impegnato nella storia che viene a trovarsi nel cuore d'un Sud stregonesco, magico, e vede che quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono più, sono in gioco altre ragioni, altre opposizioni nello stesso tempo più complesse ed elementari.”
Così scriveva Italo Calvino, sottolineando un aspetto della vicenda personale ed umana che tornerà evidenziato da Giovanni Falaschi, il quale porrà l'accento sull'origine torinese e quasi illuminata dello stesso Levi, borghese per definizione, che "ha tratto dalla sua città il senso aristocratico di una primogenitura politica rispetto alle altre zone d'Italia, e il gusto di una cultura attiva e impegnata, il senso pragmatico della conoscenza"; elementi insomma che hanno preservato il Levi uomo "immune da compromessi personali durante il lungo ventennio del fascismo".
Il punto di avvio del romanzo, una sorta di incipit taciuto tra le spire del romanzo stesso, è il dato biografico che fa coincidere l'opera con la vita dello stesso Carlo Levi. Lo snodo cruciale nella vita-Storia di Levi è proprio il suo essere recluso o meglio confinato, dal regime fascista, in quanto oppositore, persona invisa, scomoda al regime, dunque da rendere innocua. Il protagonista è un prigioniero, medico e artista, uomo di cultura che vede limitata la sua libertà personale, prigioniero del regime in un mondo lontano dalle sue radici.
L'avvio del romanzo presenta subito il protagonista che viene a trovarsi di fronte all'ennesimo trasferimento in quella costellazione di paesi della Lucania, in quella sorta di perennemente dimenticato Meridione italiano. Su questo punto concorderà tutta la critica: il romanzo di Levi esplose come la grande opera che ebbe il merito di far conoscere, all'Italia intera, la cosiddetta “questione meridionale”.
Proprio da questo dato umano, personale, incomincia la vicenda vera e propria del romanzo di Levi, un uomo, un protagonista, confinato, lontano dalla sua terra natia, in quelle sperdute zone della Lucania, lontano dalla sua Torino, sballottato tra quei paesi, di contrada in contrada, in piccoli comuni di poche case di quel meridione sconosciuto e selvaggio, "stregonesco", in quanto governato da un arcano rapporto degli esseri umani con la vita e la natura, in cui le persone, contadini, seguono il ciclo della luna, della natura, lontano da un rapporto cristiano, nel senso anche religioso del termine, in un legame attraversato da una superstizione magica con ciò che li circonda. Continua Giovanni Faleschi, sottolineando come dalla sua educazione familiare Levi sia in grado di trarre "quel tono aristocratico del comportamento, che si potrebbe definire di sicurezza anche nella solitudine, il senso del valore della posizione individuale, nonostante il comportamento generale o «di massa»". Prosegue ancora Faleschi evidenziando come proprio "dall'origine israelitica della sua famiglia, di cui pure non fa mai cenno nelle sue opere, Levi ha tratto la convinzione del carattere universale della cultura, la conoscenza sicura della Bibbia, e la natura profetica ed ecumenica del messaggio".
Un ritratto simile lo regala lo scrittore Sartre, in un frammento di un articolo intitolato «L'universale singolare», ponendo la iato su un Levi in grado di sentirsi dappertutto "come a casa propria", aggiungendo, "non per arroganza, certamente, o per spavalderia, ma per una sorta di naturale adattamento della sua personalissima vita alla vita quotidiana delle masse". Non solo "passione di vivere" bensì "la passione della vita". Una forza che lo attraversa portandolo ad accettare la propria condizione di recluso, la propria Storia, in accordo con i dettami di una storia universale.
E parlando di se stesso, in una lettere indirizzata all'editore: "Era forse anch'esso un altro, un giovane ignoto e ancora da farsi, che il caso e il tempo avevano spinto laggiù, sotto quei gialli occhi animali, quei neri occhi di donne, di uomini, di fanciulli [...] perché si trovasse nell'altrove, nell'altro da sé, perché scoprisse la storia fuori della storia, e il tempo fuori del tempo, e il dolore prima delle cose, e se stesso, fuori dello specchio dell'acque di Narciso, negli uomini, sulla terra arida".
Un'opera che parla di iniziazione; un'iniziazione alla Storia.

Come dice Cesare Garboli nella sua introduzione che apre il romanzo “La Storia”, di Elsa Morante:
“Non un romanzo ma come diceva la stessa Morante, stordita dal chiasso e rintanata in casa a curarsi le ferite, un manifesto, «un'azione politica». La sconsacrazione. La condanna della Storia.”
In poche parole si riassume la condanna senza appello alla Storia, in quella requisitoria che la Morante fa scorrere attraverso brevi pendici che corredano l'intera sua opera. E il dolore e le vittime della Storia non sono solo i protagonisti che prendono vita nel romanzo, ma tutte le vittime che la storia ha mietuto nel suo drammatico scorrere.
Come prosegue Garboli qualche pagina dopo:
“in un romanzo fatto di tanti destini promiscui, che si realizzano meticolosamente uno per uno e vanno a perdersi come tanti scoli nella stessa fossa comune, s'intravede una struttura rapsodica, a episodi, la carpenteria a storie incastrate che è dei poemi epico-cavallereschi.”
Nel dramma collettivo ed intimistico dei singoli, i personaggi presentati, quasi paradossalmente - ma non troppo - come nota lo stesso Garboli, sembrano i protagonisti di un ciclo di gesta, una chanson. Ed effettivamente è proprio questo a rendere drammatica la vicenda: i singoli personaggi sembrano essere personaggi di poemi cavallereschi. Accanto alle vicende dei singoli, la cronaca della Storia vera e propria, manifesta nella vicenda come l'impulso che fa tendere le direttrici dei singoli verso il medesimo destino dove vittime e carnefici non possono che confondersi nella disperazione di una insensatezza che muove la Storia stessa.
Questo si capisce già nel momento in cui si presentano i primi personaggi che si affacciano sulla soglia del romanzo, o meglio sul palco della Storia stessa che è lo scenario della vicenda. È questo il senso di ineluttabile disfatta che muove le vicende della protagonista Ida Ramundo e del suo aguzzino bavarese, accennato da pochi tratti, destinato, egli stesso, a divenire vittima della storia poche pagine dopo il suo crimine contro la stessa Ida.
Con un piccolo specchietto viene introdotto il soldato tedesco.“Un giorno di gennaio dell'anno 1941 un soldato tedesco camminava nel quartiere di San Lorenzo a Roma. Sapeva 4 parole in tutto d'italiano e del mondo sapeva poco o niente. Di nome si chiamava Gunther. Il cognome rimane sconosciuto”. Anch'esso risucchiato e ingoiato nella Storia con il suo crimine.
Un crimine che ha in sé il peccato, la colpa che la protagonista femminile cercherà di nascondere, come una malattia che essa stessa ha contratto, similmente ai segni di una lebbra e che la porteranno a rifuggire la sua stessa idea di innocenza, in quanto macchiata da una colpa indicibile, inconfessabile; una malattia sociale di esclusione quasi paragonabile a quella sua epilessia giovanile, che colpirà anche il suo secondogenito, o la sua paura esistenziale in quanto donna con radici giudaiche.
Ma come per un contrappasso dantesco, dal ventre di Ida, macchiato da una colpa che non le appartiene, non può che sbocciare Giuseppe, spensierata creatura che accompagna sua madre nel dramma di una Roma occupata e martoriata, tra aguzzini nazi-fascisti e il timore dei bombardamenti alleati, in mezzo ad altri sfollati vittime della Storia, capace di consolare quel dramma personale e umano con la sua timida iniziazione alla vita.
Nel romanzo della Morante, a differenza dell'opera di Levi, è significativo il valore cronachistico della vicenda; in questo senso i capitoli del romanzo sono le date, in cui, quasi come in una tabula dealbata, rievocando il sottotitolo della prima edizione “Uno scandalo che dura da diecimila anni”, vengono raccolte e descritte le vicende dei sette anni in cui è ambientato il romanzo, tra 1941 e 1947, collocandole tra un prima e un dopo imprecisati, sottratti ad un passato appena accennato e un futuro identico a ciò che è stato: segnati anch'essi, passato e futuro, da violenza e soprusi. La vicenda di Ida, strappata al flusso del tempo altro non è che una chiarificazione dell'insensatezza di quella Storia che scorre sempre uguale tra le macerie che si lascia alla spalle senza curarsi di chi trascina via, di chi svanisce tra i suoi flutti, senza un razionale perché; “E la Storia continua”.

Come ricorda la stessa Morante, in apertura del romanzo, citando un sopravvissuto di Hiroshima:
«Non c'è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte»




Bibliografia:

  • Morante, Elsa: “La Storia”, Einaudi (2009)
  • Levi, Carlo: “Cristo si è fermato a Eboli”, Einaudi (2010)

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