sabato 21 settembre 2013

Noia e aeroporti

di Mattia Sangiuliano

Passione per la riproducibilità asfittica, uno spazio chiuso in cui far annegare la noia, uno schema che si riproduce puntata dopo puntata, edizione dopo edizione per ogni programma del palinsesto. Ecco la ricetta per un programma qualsiasi da servire al grande pubblico dei fan del digitale terrestre; il tutto, guarda caso, made in USA filtrato dalla rete D-MAX.

Emblematico l'esempio del programma simil-reality "Airport security": una sorta di pseudo show che riprende la routine di vari aeroporti con la preferenza di quelli australiani, e delle attività di quelle figure che lavorano al suo interno e che devono mantenere la sicurezza evitando l'introduzione di animali, merce di contrabbando, soldi non dichiarati e varie specie di alimenti che possono minacciare l'economia dell'isola.


Perché l'Australia? Semplicemente per via della sua dura politica legata al controllo quasi maniacale (dal punto di vista di un abitante di altre realtà) delle frontiere. Proprio la durezza e la severità delle pene sono materie che rendono l'Australia un teatro esotico da scodellare agli amanti dei reality.

Vengono così descritti i ruoli di vari operatori ripresi con nonchalance mentre si muovono all'interno dell'aeroporto per tutelarne la gestione, assicurando alla giustizia smemorati trasgressori che, solitamente possono essere: europei che si sono scordati di dichiarare bulbi di piante, ragazzi che hanno addosso avanzi di panini di un fast food ucraino o, ancora, tipici studenti giapponesi che non hanno dichiarato delle banconote in Yen che tenevano al sicuro nella spaccatura tra le chiappe.

Cambiano facce e nazionalità con abbondare di stereotipi che fanno calare la palpebra anche al più stoico poltronifero amante dei reality, uno di quelli formatisi sulla scorta del Jersey Shore, nella schematica riproducibilità di un modello che ripropone sempre lo stesso cabaret di tartine surgelate, accompagnato da una colonna sonora che rende il progredire delle indagini grottesche per quanto ridicole.
Vengono ripetute le stesse battute tratte da un repertorio di un burocratese disarmante, ritradotto attraverso quella pseudo-doppiatura volutamente trasandata che deve sistematicamente tingere di realismo quello che sta avvenendo sulla scena, in un'ibrida lingua popolareggiante.
L'ambientazione è il colpo di grazia: scene che ricordano "The terminal" tra scaffali e magazzini, tra casse, corsie e nastri trasportatori in quelle che sono vere e proprie cattedrali atee, senza distinzioni crono-topiche che descrivano l'esotismo del paese in cui dovrebbe essere ambientata la scena. La realtà che potrebbe essere multiforme si appiattisce in un luogo uguale a tanti altri, per tutti gli aeroporti del mondo: asettico come un ospedale, divertente come la fila per lo sportello nella sede dell'INPS. E le situazioni sono sempre le stesse e le persone, anche se cambiano volti e tratti, ripetono sempre le stesse cose.

Quando la noia è di casa neppure un viaggio risolleva gli animi.

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