di Mattia Sangiuliano
Don Silvano segue in silenzio il suo
anziano superiore attraverso i corridoi bianchi dell'oratorio. Don
Roberto provvede ad accendere le luci al neon delle stanze e dei
corridoi che attraversa. Un sorriso distende il volte del giovane
parroco; davanti a lui immagina la solita espressione seriosa del suo
superiore. Il fatto che lo abbia convocato con così tanta fretta
dopo aver aperto i cancelli dell'oratorio non fa supporre nulla di
buono. Questo almeno rende la passeggiata molto meno gravosa: don
Silvano sa che lo attende una lavata di capo.
“Tanto per cambiare” pensa il il
giovane prete che, imperturbabile, continua a mantenere quel suo
sorriso tranquillo dietro la sua scura barba ascetica ma, con il
procedere di quella loro processione, il sorriso del giovane si fa
sempre più pesante e difficile da mantenere alle spalle di
quell'imperturbabile parroco che lo precede.
Non appena si scorge, in fondo al
corridoio, l'ufficio di don Roberto, le gambe di Silvano si fanno un
po' più pesanti, molli, indebolite da un'insolita flemma.
In prossimità della porta il parroco,
don Roberto, estrae dalla tasca il mazzo di chiavi, in uno
sferragliare di ferri che cozzano fra loro. In quel piccolo
portachiavi sono racchiusi tanti piccoli anelli saturati, anch'essi,
di tante chiavi dalle più disparate dimensioni e dei colori più
vari.
Il caldo di quel riscaldamento
perennemente acceso a temperature esagerate soffoca don Silvano che,
con il cappotto in mano, è tentato di sfilarsi il colletto bianco e
slacciare il primo bottone della camicia nera. Desiste, ma è tentato
di vincere l'affaticamento appoggiandosi a quelle pareti magari su
una di quelle bacheche di sughero tappezzate di avvisi rigorosamente
siglati e timbrati dalla grafia del capo curato e dalla sua maniacale
precisione burocratica. Sicuramente tutti piccoli tratti di quel suo
carattere così condizionato dalla sua precedente professione di
infermiere. Una professione interrotta per rincorrere il celibato e
quella tarda vocazione che si era manifestata così improvvisamente.
“Il mistero della chiamata” pensa don Silvano.
Don Roberto da due vigorosi giri alla
chiave che fa scattare con forza il meccanismo della serratura,
facendo riecheggiare lo schiocco dell'ingranaggio per i corridoi,
accompagnato dal conseguente sferragliare delle altre chiavi
attaccate a quell'ingombrante mazzo.
Don Roberto entra nell'ufficio
accendendo il neon e il giovane Silvano lo segue. Come tutte le volte
in cui entra in quell'insolito ufficio, Silvano non può trattenersi
dall'osservare il passaggio in quell'ambiente così diverso dagli
altri interni dell'oratorio.
La cosa che più di tutte attirò
l'attenzione di Silvano la prima volta che entrò in quello studio fu
il pavimento. Tutte le stanze, sino alla sagrestia, hanno la stessa
pavimentazione di mattonelle grigiastre, con motivi tutti uguali di
piccole macchiette di varie tonalità di marroni e piccoli pallini
neri o giallognoli, il tutto va a costituire una pavimentazione più
o meno uniforme in tutte le stanze e in tutti i corridoi. Il
pavimento dell'ufficio del parroco, invece, è lastricato di
mattonelle bianche disposte di traverso, come dei rombi, che vanno a
creare un primo significativo contrasto con quella disposizione
ordinata delle mattonelle che, negli altri ambienti dell'edificio,
sono rigorosamente disposte parallelamente ai muri. In secondo luogo,
la cosa che più attirò l'attenzione del giovane curato fu il fatto
che il sottile interstizio che separa il perimetro di una mattonella
dall'altra è anch'esso bianco e immacolato, senza la minima chiazza
scura o di sporco.
Silvano mette un piede su quel
pavimento ed entra nello studio del parroco più anziano. Don
Roberto va a prendere posto dietro la sua scrivania anch'essa bianca,
ma di un bianco più smorto di quello del pavimento, simile a quello
della modesta libreria bianca addossata alla parete, ingombra di
tanti e varo testi di catechismo e bibbie e vangeli dalle copertine
più svariate o dalle rilegature più consumate, alcuni dovrebbero
essere dei veri pezzi di antiquariato. In mezzo a tutto quel bianco i
due curati spiccano per il loro usuale abbigliamento rigorosamente
nero. Nonostante nessuna norma imponga l'abito talare nei giorni
feriali, i due parroci si ritrovano faccia faccia in quel candido
studio, l'uno seduto dietro la scrivania, l'altro, il più giovane in
piedi tra due sedie marroni, quelle stesse sedie che ingombrano le
piccole aule adibite al catechismo o che abbracciano l'altare
all'interno della chiesa, indossando il loro abito distintivo.
Nello studio di don Roberto il calore è
insopportabile e asfissiante, soffocante come quel miscuglio di odori
che ingombrano quella piccola stanzetta. Su tutti quegli odori
campeggia un perenne e penetrante aroma di incenso, percepibile in
maniera molto più intensa in quella stanza che in altri luoghi
dell'edificio. Accompagnato a quello dell'incenso, ma in un'intensità
lievemente minore, l'odore di disinfettante attanaglia la gola
facendola prudere; un misto di ospedale e di chiesa amalgamato in un
unico ambiente claustrofobico e poco areato. Un altro odore, più
lieve dei primi due, è l'unica traccia intermittente di freschezza
che possa essere accostata a quell'ambiente. Le prime volte don
Silvano non riuscì a spiegarsi quell'odore quasi delicato, in quel
marasma di sensazioni ma, dopo qualche convocazione, quasi per una
fortuita coincidenza, riuscì a ricordare quella fragranza, che gli
riportava alla mente sua nonna: la canfora. In una quantità minima,
certe volte a stento percettibile, un vago sentore di canfora
alleviava la gravezza dello studio di don Roberto. Sotto la luce del
neon che, scaldandosi, illumina con maggiore intensità tutti gli
oggetti della stanza don Silvano riesce a rintracciare anche oggi
quella fresca fragranza di canfora.
La canfora però non è in grado di
alleviare quel calore che fa pesare le palpebre facendo strabuzzare
gli occhi, capace di svuotare la volontà.
Alle spalle della semplice sedia nera
su cui prende posto don Roberto, si staglia una parete bianca
immacolata su cui campeggia un piccolo crocifisso marrone scuro con
un Cristo inchiodato su una croce appena poco più scura del
soggetto, la cui espressione, però, viene appiattita in
un'indistinta accozzaglia di quei lineamenti che si vanno a
confondere nel colore scuro della composizione; tutti i dettagli si
fondono in un indistinto ammasso di ombre che si sovrappongono più
si tenta di separarle con l'osservazione.
«Dunque» incomincia don Roberto
rompendo il silenzio che grava in quello studio, mentre con le mani
nodose accarezza il piano della scrivania su cui si trovano appena
qualche foglio, qualche documento o lettera e le bozze del giornalino
della domenica. «Volevo esporvi una questione» prosegue il curato
con la sua voce atona, rivolgendosi al collega, come sua abitudine,
con il voi.
«Dica pure don Roberto» incita
pacatamente don Silvano, riuscendo a vincere quella prostrazione
causatagli dal caldo opprimente.
Il curato sorride in risposta
all'appellativo don e, ricordandosi dei titoli e delle onorificenze
ecclesiastiche riprende: «Don Silvano avrei bisogno di parlarvi
riguardo ad alcune questioni di curia e di... buona educazione» dice
dopo un istante di riflessione, scrutando attentamente il giovane
parroco che ha di fronte.
«Dica pure» si limita a dire don
Silvano, avendo capito dove vuole arrivare l'anziano parroco.
«Bene» incomincia don Roberto
appoggiando le mani giunte sopra quei pochi fogli disposti sulla
scrivania bianca che sembra riflettere la luce via via sempre più
intensa del neon sui lineamenti ben rasati del suo viso e,
direttamente, sulla pelle nuda e perfettamente liscia di quella
chierica contornata da capelli grigiastri.
«Ho notato che avete proseguito con i
vostri sermoni... laici» sentenzia il parroco mentre si accarezza il
candido collarino bianco che porta al collo. «Mi domando se non sia
meglio, come vi ho già accennato altre volte, portare alle giovani
menti il dolce miele di qualche passo del vangelo»
“È un'inquisizione” pensa don
Silvano, riuscendo così, con questo pensiero, a distendere i propri
nervi e a non pensare al caldo.
«Ovviamente il mio intento non è
quello di far allontanare i bambini dal verbo di Dio e dalla buona
novella» spiega don Silvano, aggiungendo: «Reputo indispensabile
poter arrivare a dispensare insegnamenti fecondi usando tutte le
conoscenze a mia disposizione»
«Anche la filosofia?»
«La filosofia, la letteratura il
teatro, le scienze...»
A quest'ultima parola il prete più
anziano inclina in avanti il capo, per osservare meglio il giovane
prete che gli sta di fronte, al di là degli occhiali che gli stanno
adagiati su quel naso dritto.
«Tutto merito del vostro retaggio
scientifico suppongo» interrompe il parroco mantenendo un tono
neutro.
«Molto probabilmente» conferma don
Silvano.
«Il piacere del dato sensibile, della
certezza empirica... non è vero, don Silvano?»
«È un campo di studi, di ricerca, che
vuole trovare risposte. Come la chiesa per certi versi»
«Si, ma il fondamento della religione
cattolica è il suo essere una religione rivelata...»
«Il verbo che si è fatto carne»
«Precisamente, don Silvano, con tutti
i suoi annessi e connessi. La mia preoccupazione... anzi: il mio
cruccio è che voi possiate concentrarvi troppo sul secolo,
dimenticando i vostri obblighi e doveri verso la nostra parrocchia»
Silvano non può trattenersi dal
rispondere con il suo pacato tono di voce: «Viceversa, però, non
bisogna dimenticarsi che operiamo proprio nel secolo, a contatto con
fedeli e con persone, laiche, che tendono ad allontanarsi da pensieri
che non forniscono loro risposte esaustive. Parlando ai giovani di
cose che li interessano sento di adempiere al mio dovere. Verso la
comunità e verso la chiesa»
«Ma la comunità» replica don Roberto
«non è fatta di soli giovani, come voi, tenetelo a mente. Gli
anziani, come me, potrebbero anche non apprezzare certe prediche che
possono confondere le menti e far sperdere, ancor di più, gli
animi». Dopo una breve pausa, tipica del curato che vuole far
attecchire un seme nella mente dell'uditorio, aggiunge: «certamente,
condivido il vostro pensiero e il vostro intento pedagogico, anche io
ho avuto venticinque anni, come voi. Ricordatevi però che la verità
è una e le dottrine scientifiche mal si conciliano con quelle
ecclesiastiche».
“È una minaccia” pensa Silvano
rimanendo in silenzio preferendo non controbattere a quell'opinione
del presbitero che si prefigura sempre più come un'inquisizione, un
attacco alla politica che il giovane prete ha tenuto sino a quel
momento.
Don Roberto, che non ha smesso di
studiare un solo istante il suo confratello riprende e gli domanda
inaspettatamente: «E suo padre come sta?»
Un velo di perplessità passa sulle
sopracciglia di don Silvano, per un istante aggrottate in un lampo di
sorpresa che subito si dilegua: «Bene. L'ho sentito qualche giorno
fa per telefono. Ha molto da fare»
A questa risposta è ora il parroco più
anziano ad essere letteralmente esterrefatto, mostrando un cipiglio
di inaudita sorpresa: «Non lo sente tutti i giorni?» si risolve a
domandare alla fine.
«Quando i nostri impegni lo
consentono» replica molto sobriamente il giovane, mettendo avanti
gli impegni lavorativi.
«Mi raccomando! La famiglia è molto
importante»
«Certamente don Roberto, la ringrazio
per l'interessamento»
«Dunque la politica procede bene per
il nostro deputato»
«Senatore» corregge don Silvano «mio
fratello, il primogenito è deputato, mio padre è senatore»
«Una famiglia devota anche in
politica, non è vero?»
«Come molte» risponde semplicemente
don Silvano, incominciando ad accusare quel caldo soffocante ora che
si è cominciato a parlare di questioni più intime.
«Ma non molte possono vantare due
politici nella DC e un giovane figlio così promettente che potrebbe
diventare la colonna portante dell'arcidiocesi»
Ora Silvano non si cura di celare il
suo stupore; sotto la superficie della sua fronte sente diffondersi
una sorta di gelo che non fa altro che amplificare quel caldo sempre
più asfissiante e secco che sembra alitargli in faccia una
derisione. Non ha la forza di controbattere ne di chiedere
spiegazioni. È conscio del fatto che, più tardi, in solitudine, si
maledirà per questa sua rinuncia. Ma ora è troppo stanco. Ha
bisogno di riflettere, in solitudine.
«Volevo anche ringraziarvi per il
lavoro che in questo breve periodo avete svolto nella nostra
parrocchia. Portate i miei saluti a vostro padre, ringraziatelo
ancora per quella donazione che ha fatto all'oratorio. So che tenete
molto a questa attività. Mi auguro che continuerete ad aiutare la
nostra parrocchia con i vostri servigi e la vostra correttezza. Ora,
se volete scusarmi devo preparare la predica per la prossima
domenica. Che Dio vi benedica»
«Che Dio vi benedica» scandisce il
parroco inclinando appena il capo in avanti, quel tanto che basta per
scorgere la punta delle scarpe di pelle del presbitero che spuntano
da sotto la sobria scrivania, segno di una certa soddisfazione che ha
fatto distendere e rilassare le gambe al parroco.
Don Silvano si avvicina alla porta
dello studio, fa ruotare la maniglia ed esce, senza voltarsi neppure
dopo essersi richiuso alle spalle la porta lasciandosi alle spalle
l'altro parroco, quasi certamente intento ad osservarlo.
Nel lungo corridoio in cui si trova,
immerso in quel tepore così lontano dal caldo asfissiante
dell'ufficio di don Roberto, in quel semplice odore di oratorio, di
aule chiuse, senza quel permeante odore di disinfezione maniacale; in
silenzio in quel corridoio perennemente polveroso, tra quei muri
rigati da centinaia di sedie che vi hanno strusciato, rigandoli, e
ammaccati dallo sbattere delle porte spinte da qualche corrente
improvvisa.
Dalla finestra a lato del corridoio in
cui si trova Silvano una nuvola getta un ombra scura all'interno
dell'edificio. Avvolta in quella luce giallognola dei neon ancora
poco riscaldati si incammina verso l'uscita, riflettendo tra se e se
su quel colloquio che ha appena avuto con don Roberto. Un pensiero lo
opprime e lo getta in uno stato di confusione: “È possibile che
voglia comprarmi per i favori di mio padre?” subito scansa questa
ipotesi.
“È possibile, invece, che voglia ricordarmi il mio ruolo all'interno di questa comunità. Un modo per farmi stare calmo ricordandomi qual'è il mio posto? Vuole smorzare i miei atteggiamento per una forma di decoro. Se è la carriera la posta in palio, dovrebbe aver capito che non mi interessa. Viceversa potrebbe voler dire che, come può sostenermi, può anche farmi precipitare” un velo di preoccupazione lo stringe in un dubbio a cui non sa trovare risposta: “Che voglia togliermi l'oratorio?”
“È possibile, invece, che voglia ricordarmi il mio ruolo all'interno di questa comunità. Un modo per farmi stare calmo ricordandomi qual'è il mio posto? Vuole smorzare i miei atteggiamento per una forma di decoro. Se è la carriera la posta in palio, dovrebbe aver capito che non mi interessa. Viceversa potrebbe voler dire che, come può sostenermi, può anche farmi precipitare” un velo di preoccupazione lo stringe in un dubbio a cui non sa trovare risposta: “Che voglia togliermi l'oratorio?”
Immerso nei suoi pensieri, a testa
bassa quasi si scontra con Pietro, un catechista appena ventenne che
lo aiuta nelle attività dell'oratorio.
«Salve Don» esclama Pietro, solare
come sempre.
«Ciao Pietro» saluta in risposta il
parroco riprendendo la sua compostezza naturale, sorridendo a quel
volto amico.
«Come va Don, tutto apposto?»
«Tutto apposto!» conferma Silvano,
regalando un sorriso al ragazzo. “Non è necessario che lo carichi
delle mie preoccupazioni” aggiunge poi mentalmente. Dopo un breve
istante, poco prima che i due si salutino, Silvano approfitta di quel
fortuito incontro: «Senti Pietro, ti spiacerebbe proseguire da solo
per le attività di oggi? Dovrei sbrigare alcune faccende»
«Ma si figuri Don, nessun problema»
«Grazie Pietro, allora buon lavoro. E
mi raccomando, fai entrare tutti che fra poco dovrebbe ricominciare a
piovere»
«D'accordo, ciao Don, buon lavoro»
Silvano osserva per un istante il suo
amico che si allontana, diretto verso l'ufficio di don Roberto, poi
riprende a camminare verso l'uscita. Giunto sulla soglia spalanca il
portone e si gode l'aria fresca che lo ristora dopo
quell'insopportabile oppressione dell'ufficio del parroco e si infila
il cappotto che ha tenuto in mano per tutto il tempo. I ragazzi
stanno ancora parlando fra loro dibattendo a turno, senza curarsi
delle pesanti nuvole che si stanno addensando sopra le loro teste. Al
di là del cancello il via vai delle persone che passeggiano è
aumentato di intensità.
Una folata di vento fa sfuggire la
porte di mano a don Silvano che si chiude sbattendo con violenza. Il
parroco si incammina verso il cancello mentre i ragazzi si stringono
addosso i loro cappotti per ripararsi dal freddo e dal vento. Appena
passa davanti a loro questi lo salutano cordialmente. Silvano accenna
un saluto in risposta, oramai nuovamente preso dai propri pensieri.
“In fondo non si può sfuggire ai
poteri forti e alle necessità che ci sovrastano. Se si è da soli
non si può combattere una crociata contro l'ignoranza e contro forme
ormai fisse e solidamente ancorate nell'abitudine. Bisogna adattarsi
e chinare il capo, per sopravvivere, se non si vuole soccombere,
schiacciati da interessi più grandi. Solo i più forti possono
sopravvivere. Mi domando allora chi è il più forte, colui che non
china il capo o colui che preferisce il silenzio? Ora come ora mi
sembrano entrambe alternative coraggiose” continuando la sua
riflessione, il giovane parroco appena venticinquenne, passa
attraverso il vorticare delle foglie e di gocce che cadono dagli
alberi mossi dal vento.
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