lunedì 18 marzo 2013

"Cosa e parola" di Marino Moretti

Felicità, cosa che sa d'amaro,
parola che si lascia dire e ride,
fior che fiorisce come un frutto raro,
gioia che il cuor sopisce e non uccide;
felicità, larva di donna, riso
di donna, occhio di donna, ombra di donna,
seppi io forse il tuo gran rombo improvviso,
rabbrividii nel tuo bacio che assonna?
E se la stringo al mio cuore soave
la chiave della mia casa solinga,
felicità, forse t'ho chiusa a chiave,
fior, gioia, donna, ombra, infelicità?

Marino Moretti (Cesenatico, 18 luglio 1885- Cesenatico, 6 luglio 1979) è stato un poeta italiano. Autore di romanzi, è noto soprattutto come poeta crepuscolare.
Si iscrisse al ginnasio ma abbandonò gli studi nel 1900. Si dedicò ad una gran varietà di attività; seguì corsi a scuola di recitazione e a Firenze si inserì nella vivace e stimolante vita culturale della città. La prima raccolta poetica "Fraternità" è del 1905 e "La serenata delle zanzare" del 1908.
Non essendo stato abilitato al servizio militare per la Grande Guerra, deciderà di partire come infermiere. Dal 1923 fu attivo collaboratore con testate giornalistiche di rilievo quali il Corriere della Sera. Fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, anche se non prese attivamente parte all'opposizione.
Dopo una lunga pausa, riprese a scrivere poesie nel 1969.

Poesia tipicamente crepuscolare, delle piccole cose, delle piccole realtà quotidiane polverose e dimesse. Mirabile, in Moretti, la rappresentazione della debolezza dell'uomo nei confronti del tempo che scorre inesorabile. Tema che si ripete in molte liriche è quello della provincia con tutte le sue declinazioni di stampo crepuscolare e dimesso.
Nonostante la longevità del poeta, e della sua stessa produzione, Moretti mantenne sempre la stessa cifra stilistica di matrice crepuscolare.
Lo stesso linguaggio è quello della prosa, molto vicino al parlato.

La poesia sopra riportata si intitola "Cosa e parola" ed è contenuta nella raccolta "Il giardino dei frutti" del 1916. Già nel titolo viene introdotto il tema della riflessione attorno al rapporto che intercorre tra una cosa e la parola che designa tale oggetto. Elementi che possono anche entrare in contrasto fra loro.
La "felicità" è il fulcro della lirica, viene ripetuta ai versi 1, 5 e 11 (anafora); in apertura viene definita come una "cosa" amara, come una "parola" che, in un anagramma, si lascia "dire", pronunciare, e al contempo "ride", essa stessa. L'eccezionalità della felicità viene rappresentata da una piccola cosa: un fiore che sboccia come un "frutto raro"; la semplicità nasconde dentro di se un processo grandioso e lento di maturazione. La " gioia" che si prova viene calmata, chetata, dal cuore ma non uccisa: viene custodita. Al verso 5 viene ripetuta la parola "felicità" che viene accostata alla figura della donna, prima come spettro, prototipo, della figura femminile, poi al "riso", all'"occhio" e all'"ombra", in una metonimia secondo la quale la felicità è rappresentata da ogni aspetto che la donna evoca nella mente. Il poeta si domanda se conobbe realmente quel boato, quel fragore "improvviso", inaspettato, che lo fece rabbrividire ma che, con un bacio (in un ossimoro) ha la facoltà di placare, di lenire.
Se stringe dolcemente (ossimoro) al cuore, la chiave della sua casa solitaria, quella dimensione interiore emotiva e memoriale in cui poter far rivivere il ricordo, la felicità "forse" è stata chiusa al sicuro. Quel forse è molto forte, dubitativo, tanto da far domandare al poeta se il fiore, la gioia, la donna e l'ombra, poiché vive nel ricordo e nel cuore non siano invece fonte di infelicità.
La poesia si apre con la parola "felicità" e, molto significativamente, si chiude domandandosi se non sia invece "infelicità", in una sorta di struttura circolare aperta.

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