domenica 8 novembre 2020

Le mistificazioni del 4 novembre

Di Mattia Sangiuliano

Il 4 novembre ad opera di un funzionario pubblico è andato in scena l’ennesimo episodio di apologia del Fascismo. In una lettera (vedi sopra) che, a dire dell’autore, voleva essere educativa, il direttore generale dell’ufficio scolastico delle Marche, Marco Ugo Filisetti, ha dato voce al nuovo corso politico dell’amministrazione regionale, da settembre scorso virata drasticamente a destra.

Nella sua lettera compaiono caratteristiche ed artifici retorici del primo dopoguerra; l’immagine volontaristica, a tratti romantica, della partecipazione attiva del corpo della nazione dispiegata nello sforzo bellico è una forzatura storica che ignora l’orrore del conflitto e l’immane tragedia che si trascinò ben oltre il 1918 e che aprì le porte al ventennio fascista.

L’intervento armato venne dipinto come azione necessaria e prosecuzione ideale del movimento risorgimentale che voleva completare l’unificazione dell’Italia. La mitopoiesi della Grande Guerra aveva lo scopo di solidificare e cementificare l’identità nazionale sotto ogni sua forma e forgiare il carattere del corpo nazionale sempre più prossimo alla decadenza.

Dopo il conflitto la difficoltà nella riconversione industriale, la crisi politica del parlamentarismo tardo ottocentesco e il reinserimento dei reduci nella società civile, sono tutti elementi che alimentano un malcontento generale sempre più tangibile e che, assieme alla politicizzazione delle masse, determinano l’ascesa del fascismo.

Il fascismo riprende l’immaginario bellicista interventista arricchendolo di nuovi elementi ponendo l’accento sul valore purificatore e rigeneratore del conflitto bellico, mutuando un topos tipicamente futurista già caro agli interventisti della prima ora: l’immagine della lotta alla decadenza dei tempi si sposa con l’onta dell’unificazione incompiuta e della vittoria mutilata, riportando in auge il mito della guerra.

Le parole del provveditore Filisetti non sono un accorato appello alla memoria – o alla commemorazione –, non sono neppure un vaticinio inneggiante alla pace tra popoli; la retorica del provveditore è un’infelice ammiccamento alla barbarie guerrafondaia cha ha mosso lo squadrismo del primo fascismo e che agita le odierne nuove destre.

Sono parole pericolose in quanto chiave di volta del ventennio più cupo della nostra storia patria. La lettera scritta da Filisetti è un fraseggio ammiccante a Giovanni Gentile, vicino – molto vicino – al fascismo, condite con uno stravolgimento della realtà storica: la Grande Guerra non è stata una prova di democrazia bensì il banco da macellaio su cui si è dilaniata la gioventù di una generazione.

Una retorica di dubbio gusto sancisce ancora una volta la cancrena che affligge l’educazione civica che dovrebbe contribuire alla formazione dei giovani. La guerra come opera feconda di potenziale pedagogico è quanto di più distante possa esserci da una scuola che voglia formare i cittadini di domani.

Antidoto ai patogeni del fascismo deve essere la Costituzione italiana che – all’articolo 11 – ripudia la guerra. Con l’espressione ripudio, forte e deciso, si esprime non solo il diniego verso l’offesa ma tutto il disgusto che la guerra suscita, in quella scia di sangue che congiunge primo e secondo conflitto mondiale, ristagnando in quel ventennio buio della nostra storia nazionale.

Le parole di Filisetti, con il loro appello finale, non possono che risultare vuote e patetiche, mistificatorie e miserabili come sole sanno essere le esortazioni e gli appelli nostalgici che vogliono chiamare i giovani all’azione; sono parole turpi e indegne di chi riesce a scomodare i morti, non martiri offertisi spontaneamente in olocausto bensì sacrificati ed immolati per interessi più grandi di loro.


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