Di Mattia Sangiuliano
Il 4 novembre ad opera di un funzionario pubblico è andato in scena l’ennesimo episodio di apologia del Fascismo. In una lettera (vedi sopra) che, a dire dell’autore, voleva essere educativa, il direttore generale dell’ufficio scolastico delle Marche, Marco Ugo Filisetti, ha dato voce al nuovo corso politico dell’amministrazione regionale, da settembre scorso virata drasticamente a destra.
Nella sua lettera compaiono caratteristiche
ed artifici retorici del primo dopoguerra; l’immagine volontaristica, a tratti
romantica, della partecipazione attiva del corpo della nazione dispiegata nello
sforzo bellico è una forzatura storica che ignora l’orrore del conflitto e l’immane
tragedia che si trascinò ben oltre il 1918 e che aprì le porte al ventennio
fascista.
L’intervento armato venne dipinto
come azione necessaria e prosecuzione ideale del movimento risorgimentale che
voleva completare l’unificazione dell’Italia. La mitopoiesi della Grande Guerra
aveva lo scopo di solidificare e cementificare l’identità nazionale sotto ogni
sua forma e forgiare il carattere del corpo nazionale sempre più prossimo alla
decadenza.
Dopo il conflitto la difficoltà
nella riconversione industriale, la crisi politica del parlamentarismo tardo ottocentesco
e il reinserimento dei reduci nella società civile, sono tutti elementi che alimentano
un malcontento generale sempre più tangibile e che, assieme alla politicizzazione
delle masse, determinano l’ascesa del fascismo.
Il fascismo riprende l’immaginario
bellicista interventista arricchendolo di nuovi elementi ponendo l’accento sul valore
purificatore e rigeneratore del conflitto bellico, mutuando un topos
tipicamente futurista già caro agli interventisti della prima ora: l’immagine
della lotta alla decadenza dei tempi si sposa con l’onta dell’unificazione
incompiuta e della vittoria mutilata, riportando in auge il mito della guerra.
Le parole del provveditore
Filisetti non sono un accorato appello alla memoria – o alla commemorazione –,
non sono neppure un vaticinio inneggiante alla pace tra popoli; la retorica del
provveditore è un’infelice ammiccamento alla barbarie guerrafondaia cha ha
mosso lo squadrismo del primo fascismo e che agita le odierne nuove destre.
Sono parole pericolose in quanto
chiave di volta del ventennio più cupo della nostra storia patria. La lettera
scritta da Filisetti è un fraseggio ammiccante a Giovanni Gentile,
vicino – molto vicino – al fascismo, condite con uno stravolgimento della realtà
storica: la Grande Guerra non è stata una prova di democrazia bensì il banco da
macellaio su cui si è dilaniata la gioventù di una generazione.
Una retorica di dubbio gusto sancisce
ancora una volta la cancrena che affligge l’educazione civica che dovrebbe
contribuire alla formazione dei giovani. La guerra come opera feconda di
potenziale pedagogico è quanto di più distante possa esserci da una scuola che
voglia formare i cittadini di domani.
Antidoto ai patogeni del fascismo
deve essere la Costituzione italiana che – all’articolo 11 – ripudia la guerra.
Con l’espressione ripudio, forte e deciso, si esprime non solo il diniego verso
l’offesa ma tutto il disgusto che la guerra suscita, in quella scia di sangue
che congiunge primo e secondo conflitto mondiale, ristagnando in quel ventennio
buio della nostra storia nazionale.
Le parole di Filisetti, con il
loro appello finale, non possono che risultare vuote e patetiche, mistificatorie
e miserabili come sole sanno essere le esortazioni e gli appelli nostalgici che
vogliono chiamare i giovani all’azione; sono parole turpi e indegne di chi riesce
a scomodare i morti, non martiri offertisi spontaneamente in olocausto bensì sacrificati
ed immolati per interessi più grandi di loro.
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