venerdì 6 marzo 2015

“La bestia dentro di noi” tra influenza mediatica e determinismo biologico

recensione di Mattia Sangiuliano.

“La bestia dentro di noi; smascherare l'aggressività” di Adriano Zamperini, p. 179, il Mulino (collana Intersezioni), 2014, 14€.

Artemisia Gentileschi, Giale e Sisara (1620)

L'autore dell'opera, che già aveva trattato l'argomento in un articolo chiosante il numero zero di Parallàxis, lo precisa sin dall'inizio di questo nuovo lavoro: attraverso il legame che sottende aggressività-media si viene spesso “sedotti da un'idea sbagliata” dell'aggressività.

Le argomentazioni del libro riescono a catturare l'attenzione del lettore spostandosi su un campo interpretativo articolato e variegato, apparentemente pieno di insidie. Zamperini riesce a muoversi abilmente senza farci mettere il piede in fallo in qualche trappola che possa far crollare la costruzione dell'opera e la tesi del libro: quell'idea dell'aggressività frutto di una pulsione interiore o di un processo biochimico naturale – a tratti fatalista – è invece condannata senza appello come “un'idea sbagliata” cui ci ha assuefatto non solo la stampa ma anche la politica del clickbatting nell'era della (dis)informazione digitale, trovando un ampio consenso veicolato dal sensazionalismo della cronaca nera, grazie a chi sfrutta il legame tra aggressività-violenza e appetibilità mediatica della stessa cronaca che viene propinata dai palinsesti televisivi.

Con alcuni esempi Zamperini mostra come il rapporto, e l'idea, di un'aggressività vista come pulsione interiore non solo sia infondata o frutto di approssimazioni ma poggi su un beneplacito consenso di pubblico, appannaggio di una semplificazione comodamente popolare ma soprattutto sfruttata da chi rispolvera e prosegue vecchie tesi ormai screditate. Vengono alla mente le teorie di Lombroso, le criticate pulsioni di Freud, transitando per alcune tesi ormai superate – fortunatamente – di Konrad Lorenz padre dell'etologia contemporanea; parimenti fallace lo studio dell'aggressività vista come frutto di un imprecisato processo biochimico e metamorfosi animalizzante dell'uomo. Alla stessa maniera, con incursioni in vari campi, vengono affrontati il rapporto aggressività-guerra, aggressività-protesta e la presenza della violenze nelle scuole.

Nel primo corposo capitolo vengono svelate le maschere scientifiche con cui viene vestita l'aggressività, quell'erronea bestia che alberga dentro di noi. In questa direzione la pulsione – o istinto – postulata da Freud, traducibile dal lemma tedesco Trieb, non ha un sostanziale fondamento empirico nel campo scientifico, vengono così messe in discussione alcune tra le molteplici teorie che alcune scuole di pensiero hanno utilizzato per descrivere l'aggressività come fenomeno naturale, frutto di una semplicistica e spontanea reazione chimica che si origina all'interno dell'individuo, escludendo o tirando in ballo – a seconda del caso – l'incidenza dell'ambiente esterno.

In campo biologico si è cercato di rintracciare il fantomatico gene, a detta di molti, portatore della violenza come causa endogena che minaccia di rompere gli argini per travolgere ciò che circonda l'individuo affetto da una patologia iscritta nel suo corredo cromosomico; teorie che sottendono, alimentandola, la teoria del gene antropomorfo, ricordando Il gene egoista opera di Richard Dawkins, costruita su questa idea del gene come entità pensante – antropomorfa per l'appunto. Stessa situazione per quanto riguarda determinati ormoni che porterebbero l'uomo a scatenarsi contro il suo simile.

Balza agli onori della cronaca l'anomalia cromosomica XYY, dunque la convinzione che la sede dell'aggressività sia una condizione ereditaria legata alla presenza di un doppio cromosoma maschile nel corredo genetico di un individuo; trova adito l'idea che gli uomini siano naturalmente più propensi a commettere atti di violenza rispetto alle donne, secondo anche quanto sostiene una prospettiva biodeterministica, il testosterone, ormone maschile, sarebbe la base dell'eccitamento o il risveglio di determinati comportamenti aggressivi – soprattutto – negli uomini.

Corrispondenza di guerra in numerosi teatri di conflitto sparsi per il mondo, e la storia stessa, con uno sguardo al passato, mostra come i conflitti siano la rappresentazione e la condensazione della violenza. La guerra è l'archetipica forma, l'immagine più nota ed eclatante, in cui si manifesta l'aggressività.

Il soldato che combatte in un'area di conflitto non è solo o isolato contro un nemico, è inserito in un tessuto di relazioni o, più precisamente, in una rigida gerarchia; in guerra il singolo è la parte di un tutto, di un meccanismo plasmato – attraverso la propaganda, o l'indottrinamento, e l'addestramento – per aderire ad un codice comportamentale in cui si è efficienti in quanto unità superiore al singolo. Durante un conflitto, inoltre, le azioni del singolo militare, soldato, o guerrigliero, devono essere incentrate sul mantenimento di una vitale distanza che, seguendo i dettami della propaganda, mira a delineare la diversità del nemico e vuole evitare il contatto tra le parti cosicché il fondamentale odio instillato tra gli schieramenti non sia fatto crollare dal constatare l'inconsistenza della differenza propugnata dal sistema e funzionale a vincere la repulsione verso l'uccisione che il soldato è portato a provare.

L'aggressività, e alla sua base la rabbia, è il fondamento della protesta. Le masse vengono fatte coincidere con l'idea di orda, specialmente se a questa immagine vengono accostate quelle del tumulto, della rivolta e della sollevazione popolare. Doverosa la rievocazione della scena che Manzoni dipinge ne I promessi sposi attraverso gli occhi di Renzo. La partecipazione alla vita pubblica tramuta l'orda in movimento sociale. Che siano manifestazioni di movimenti o folle in rivolta, alla base si trova la rabbia. In alcune situazioni la violenza è realmente l'unico modo possibile in cui farsi ascoltare, dare voce alla protesta. La violenza è un evento estremamente appetibile per i media e, allo stesso tempo, lama a doppio taglio per i manifestanti.

La rivolta prende forma quando viene maturata la diffusa idea di subire un trattamento diverso e di essere accomunati dallo stesso trattamento, vittime di un sistema che porta all'esclusione, la rottura matura la possibilità di ricercare un'alternativa a questa realtà. La violenza così risultante è la prova del fallimento delle politiche di uguaglianza non raggiunte, mancate. La società può guardare a queste rotture come a una fonte di arricchimento.

L'aggressività è una maschera che si indossa anche a scuola, alimentata dalla componente gregaria che il gruppo riveste, spalleggiata dal mondo degli adulti, dal corpo docente che si rintana dietro la comoda aderenza al ruolo, sinonimo di disimpegno; dai genitori che difendono i propri figli a spada tratta, spalleggiando di fatto il fenomeno del bullismo. L'emarginazione di una frangia di ragazzi e ragazze, il loro venire ostracizzati, risponde ad una realtà sociale con regole interne – un dentro e un fuori – contrapposte all'altra sfera dell'istituzione; l'esclusione dal gruppo è la condanna che pesa sulla vittima, negandogli dunque la possibilità di reintegrarsi. La nomea che pesa sul singolo è però una condizione che crea un legame tra le vittime, si manifesta la prospettiva di un'identità collettiva; i vendicatori di classe sono accomunati alla categoria dei sottomessi ed emarginati. Una rabbia ed un'aggressività percorrono questi aspetti, la risposta dei sottomessi, anche attraverso l'enfasi mediatica in cui il fenomeno è più dilatato negli States, può sfociare nel fenomeno degli school shooter, gli sparatori che entrano nelle scuole aprendo fuoco contro compagni, studenti e insegnanti, indiscriminatamente, nel tentativo di cercare affermazione, rivalsa, vendetta.

Da questo quadro emerge come l'aggressività non sia frutto di un meccanismo naturale di cui è pertanto impossibile fornire un'analisi empirica.
Il punto di arrivo non è lo stesso cui Zamperini giunge nell'articolo comparso sul numero 0 di Parallàxis:
«Insomma, la scienza contemporanea ha ormai levato tutte le maschere fatte indossare alla bestia; e di lei, dentro di noi, resta ben poco. Sicuramente non c'è alcuna traccia di quella cosa chiamata “aggressività” che avrebbe dovuto essere la causa di un comportamento bestiale. Il tentativo di frazionare la cosiddetta natura umana in singole parti (l'homo duplex del gotico di Stevenson) per spiegare fenomeni complessi come il comportamento umano aggressivo è franato»1.
Il tentativo di spiegare biologicamente l'aggressività è destinato a franare: non è qualcosa di naturale e l'individuo non è ostaggio nelle mani di processi e dinamiche involontarie. L'azione offensiva è volontaria, frutto del deliberato gesto di voler infliggere danno a qualcun altro.





1Adriano Zamperini, L'aggressività come genere narrativo del doppio, in Parallàxis n°0, Brescia, ETK Edikit, 2014, p. 91.

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