lunedì 27 ottobre 2014

Fanfani 1 – Berlinguer 0. E la sindrome della Leopolda.
Ma c'è davvero di che stupirsi?

di Mattia Sangiuliano

Domenica 26 ottobre, la ministra renziana Maria Elena Boschi ha dichiarato, dagli studi Rai di Fazio, che tra Fanfani e Berlinguer lei preferisce il primo, in quanto aretina.
Sinceramente non mi sono stupito. Giuro. La cosa che mi ha davvero stupito è stata la reazione di una gran quantità di persone che hanno deprecato la scelta della Boschi.
«Preferire Fanfani a Berlinguer?» è la sintesi dello sconcerto che si alza da sinistra verso quel centro-sinistra sempre più democrat in stile smaccatamente americano incarnato da Renzi e dalla sua vestale Boschi. È questo sconcerto serpeggiante tra le fila di persone e militanti radicali, di sinistra, a destare il mio più vivo stupore.
Fanfani e Berlinguer

In molti, un milione di persone per la precisione, hanno preso parte alla manifestazione indetta dalla CGIL lo scorso sabato 25 ottobre. Contemporaneamente, in casa PD, o meglio a casa Renzi, si svolgeva la “manifestazione” della Leopolda. Adesso, devo dire, definire la Leopolda una manifestazione sembra, se non esagerato, per lo meno fuori scala; sarebbe più corretto definire la Leopolda un evento – quale era – mirante a organizzare, o rinfocolare, l'alone di partecipazione rivestendo il partito di governo PD dell'intento di mantenere attivo un certo barlume, un bagliore lontano, la scintilla in una fucina, che dovrebbe – o vorrebbe? Ma lo vorrebbe davvero? – alimentare il cuore attivo e vitale del partito: il contatto con la base.

La Leopolda è stato un evento particolare, anomalo sia per un partito di governo, che per un partito di opposizione, presenta i tratti di entrambi dunque l'anomalia di alcune stridenti contraddizioni, la più grande della quale vede la dirigenza eterogenea di un organo politico sempre più macrocefalo, arricchirsi del contributo di esponenti della finanza e di una non meglio identificabile fauna di attivisti democratici; come la festa dell'Unità, in cui mangia-panini-e-salsicce sopra gli “-anta” si chiamavano l'un l'altro compagno, cercando – senza esito alcuno – di stabilire il magico momento in cui sulla loro tessera del partito, le lettere PCI si erano ridotte a DS e, infine a PD. Forse alcuni si domandano dove sia finita la falce e martello che corredava i vecchi fasti operai delle occupazioni di fabbrica – «ai miei tempi, quando c'erano le fabbriche in Italia...» potrebbero dire fra qualche anno i più anziani fra loro –, o dove siano finite le partecipazioni popolari in piazza. Beh, tutto si è chiuso entro il comfort della Leopolda, una soluzione ricca di design che riesce a mantenere il meglio dell'aspetto folkloristico che è intenzioni delle alte sfere rispolverare ogni tanto. Stile festa dell'Unità, per intenderci. Ma a questo si aggiunge un altro aspetto, l'aspetto liberal-renziano della vicenda.

Molti partecipano più o meno attivamente o contribuiscono a questo evento che vuole, perlomeno dichiaratamente, tentare di rinsaldare un certo divario tra la classe politica parlamentare, ormai inglobante un numero sempre più variegato di personalità provenienti da altre correnti se non addirittura da altri schieramenti politici, tutti riuniti nel nome di Renzi, per guadagnare un piccolo tornaconto, magari una poltrona, e la base del partito. Alcuni nomi spiccano più degli altri.

Fabrizio Landi, nominato dal governo nel consiglio di amministrazioni di Finmeccanica, ha donato 10mila €; Jacopo Mazzei, nel cda aeroporto di Firenze, 10mila euro; Alberto Bianchi, Enel, 30mila euro; Erasmo De Angelis, Unitá di missione presso Presidenza del consiglio dei ministri, 6400€.
Senza contare la funzione della fondazione Open – ex Big Bang – che, da quello che si può leggere sul sito internet, ha preso parte al finanziamento di altri eventi direttamente legati alla Leopola – ad esempio per le passate edizioni – oppure sostenendo rimborsi spese ed eventi di campagne elettorali (vedi le primarie) nonché iniziative legate al nome del premier Matteo Renzi.
Nella sostanza la fondazione Open è costituita da quattro nomi: Alberto Bianchi, Marco Carrai, Luca Lotti e Maria Elena Boschi (segretario generale).
Open, una fondazione molto poco trasparente, molto elusiva e tutt'altro che “Open” – con la “o” maiuscola.

L'edificio della Leopolda fu la prima stazione ferroviaria fiorentina. Anche oggi nella veste di centro per conferenze e meeting, complice il riuso o, meglio, la ridestinazione strumentale di alcune categorie di fabbricati per altre finalità, si trova a svolgere la funzione di punto d'arrivo e di partenza. Le vecchia sinistra è ormai un vagone che ha viaggiato lungo binari morti, ne ha poi percorsi altri di servizio per chilometri, è tempo di metterlo a riposare come un vecchio arnese ormai prossimo alla rottamazione. Viene alla mente il Matteo incazzato che urlava “Berlinguer è roba nostra”, controbattendo l'esploit di Gianroberto Casaleggio.
Al massimo, le anticaglie, possono essere tenute in un museo, in una teca di vetro, giusto per dire le avevamo, a suo tempo. Oppure chiuse sotto chiave in un ripostiglio, come se ci si vergognasse, pronte a essere tirate fuori all'occasione, secondo l'uso. Non si sa mai. Anche i vecchi capi di vestiario possono tornare di moda; e quel tocco vintage è un qualcosa di intramontabile. Peccato che addosso a chi non sappia conservarlo a dovere non puzzi soltanto di naftalina ma anche di muffa.

È parte del nuovo concetto di rottamazione: “parziale ridestinazione del vecchio”. Mica bisogna sbarazzarcene. Il discorso gravita all'idea distorta che è ormai consuetudine in politica. Mica devo cacciarli per davvero i vecchi. Basta una poltrona. La verità è che l'accordo, il compromesso tra poteri forti è una componente ineliminabile della politica. Una cosa talmente banale che a risentirla ripetuta ancora una volta, c'è il rischio possa suscitare la nausea. Peccato non sia così.

È il finanziere Davide Serra, amico del premier e suo finanziatore per le primarie PD del 2012, a sollevare un polverone per le sue sparate verso il diritto allo sciopero. Dalle parole lanciate da Serra proprio il 25 ottobre, mentre a Roma si svolge in simultanea la manifestazione della Cgil, si capisce subito quale sia il bersaglio della polemica. Serra si fa portavoce di una teoretica divisione utilitaristica dello sciopero che può essere “utile” o “inutile”; stando alle sue parole, anziché protestare – qui il patrono di Algebris, fondo speculativo con sede a Londra e tra i più redditizi del panorama, ha lo sguardo rivolto verso la manifestazione della capitale – se veramente i manifestanti avessero voluto creare posti di lavoro e occupazione avrebbero potuto essere a Firenze a prendere parte all'attività costruttiva della Leopolda.

Berlinguer era un uomo dotato di un'indubbia forza di volontà, un campione, per così dire, di quelle virtus che, solitamente, almeno sulla carta e nell'immaginario collettivo, sono proprie di chi combatte avendo ben in mente un ideale. Questa sua indole di combattente retto e coerente gli era riconosciuta anche dagli avversari politici di allora, così come dai loro odierni eredi, che da destra non possono che ricordarne i meriti; ricordarne la passione e la rettitudine che lo portò ad essere una figura pubblica amata e stimata. Non a caso questo ideale di coerenza individuale – ormai pressoché estinto, da destra a sinistra – sembra essere riconosciuto prima ancora di quella marcata vena ideologica di sinistra. Berlinguer parlava non a molti, ma a tutti. Ed era coerente.

Si concorda ancora su questo suo essere moralmente irreprensibile, proprio ora che la coerenza e la
moralità dei politici – da destra a sinistra – già da tempo irrimediabilmente incrinata, porta giorno dopo giorno a rivelare nuove mele marce frutto di una struttura politica che ha le sue radici innestate saldamente in un terreno corrotto e viziato. Se ne trovano a tutti i livelli; campioni di mala-politica, connivenza, corruzione, disinteresse verso la cosa pubblica; nelle istituzioni si muove un subdolo esercito di personalità prestate alla politica e che vedono nella politica un mezzo verso l'ascesa e la carriera, verso il prestigio e il guadagno. Dove il rapporto politica-finanza sembra aver stretto ancor più forte il suo abbraccio si scatena l'ingiustizia.

La domanda allora non è “perché Maria Elena Boschi ha scelto Fanfani?» quanto, bisognerebbe chiedersi, perché NON abbia scelto Berlinguer. Ma la domanda è scontata e superficiale, il solo porsela dovrebbe perlomeno far destare il più vivo stupore. Questo perché la risposta l'abbiamo proprio sotto gli occhi.

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