venerdì 14 febbraio 2014

La migliore fra le dittature

di Mattia Sangiuliano

Sandro Pertini disse: "La peggior democrazia è preferibile alla migliore delle dittature".
Allora, penso, cosa c'è che non va in questo paese, un paese che continua a sprofondare in un gioco di poteri, di collusioni, di mirabolanti avvitamenti in clausole (in)costituzionali per mantenere un ordine che è solamente dichiarato?

Eppure non si vede alcun ordine, si è sprofondati solamente nella pantomima di un equilibrio, un equilibrio disorientato e disorientante, tutto eretto su uno scimmiottamento di qualcosa che una volta era sovranità popolare; ci sono solo rovine, brandelli di dignità e democrazia tenuti assieme da un abbondante uso di retorica e abilità da mondo dello spettacolo, facendo leva sullo scontento generale che preme da più fronti.

Non c'è un consenso democratico. La democrazia è stata ghigliottinata, da tempo, semmai l'Italia sia mai riuscita ad assaggiarne un vago barlume; procedendo nel tempo di ventennio in ventennio; dal ventennio fascista al doppio ventennio della "Democrazia Cristiana" sino al ventennio di Berlusconi.
Dalla costituzione dell'Italia, al suffragio universale maschile del 1913, mai realmente applicato vista la prossimità della prima guerra mondiale, e successivamente alla Repubblica nel 1946, l'appello di Massimo d'Azeglio è rimasto inascoltato, "L'Italia è fatta, tocca fare gli italiani". Un appello volutamente inatteso, poiché nulla è più facilmente strumentalizzabile della massa.
Le macerie che cingono l'Italia sono quella vagheggiata democrazia prima fondata su un consenso paradossale, sfruttato, poggiante sull'ignoranza, ora riproposto nella stessa sostanza demagogica priva di fondamento pedagogico.
Nella contingenza gli interessi para-democratici si sono rivelati per quello che erano, la volontà di piegare le regole, il consenso generale, per rispettare un patto, un interesse coincidente con le politiche monetarie di quella "Europa delle banche" che ha inevitabilmente condizionato la politica interna del paese.
In questo senso è cominciata una sorta di stagione tecnocratica, una primavera di politiche dell'austerità, unica forma politica applicabile in seno ad un progetto europeo inteso a far guadagnare credibilità all'Italia.
Mantenere lo status quo, evitare lo spettro di un default, scendere a patti con poteri esterni piegando la libertà di una nazione in nome di una causa altra. Esterna, ma non coincidente con il vero progetto europeo.

La storia insegna come l'Italia sia sempre stata piegata; dalle "invasioni barbariche" -che poi invasioni non furono-, alla dominazione austriaca, passando per quella spagnola.
Un'Italia frammentata, divisa, che è riuscita a trovare l'unità con una rivoluzione guidata dall'alto, mentre la Francia voltava il capo dall'altra parte.
Nella fretta di unificare si è creato un ingestibile centralismo governativo; lasciando indietro ciò che non poteva trovare un posto nel tutto, a differenza di altri paese altri paesi che, nel loro cammino verso l'unificazione, hanno preferito delegare parte del potere alla libertà federale, come la Germania, al cui interno le stesse regioni, Bundesländer, prendono importanti decisioni amministrative e finanziarie, nonché in materia di ordinamento scolastico.

Una storia di accordi, di sotterfugi, di impossibilità di far sentire la propria voce in un concerto europeo. E quando l'Europa è stata creata, un'Italia impreparata ha fatto il suo ingresso sulla scena, con quel debito appetibile da far lievitare l'interesse delle banche.
Questo riporta in scena il tema caldo del diffuso antieuropeismo, o euroscetticismo, che si  alimenta proprio partendo dalla sfiducia e nella crisi trova il suo pregiato combustibile. Dove c'è scontento la facile soluzione demagogica è la via più breve.
Dove un'Europa è stata creata in senso monetario ma non di equilibrio veramente politico; dove la moneta unica è stata la tormentata spada di Damocle, pendente sopra il capo, simbolo di unità ancora una volta meramente bancaria, finanziaria, di interessi lontani da una vera unione europea.
Tutto un gioco politico, confuso, ingarbugliato, complesso, giostrato da arbitri che sopra le parti non sono affatto; prende le mosse dal bisogno di perpetrare lo schema inaugurale, ancora una volta ripetuto, di un equilibrio finanziario da mantenere a tutti i costi.

Ecco dunque la posizione dell'Italia su questo scacchiere, un'Italia sanguinante, ridotta a macerie, silenziosa pedina sbriciolantesi, polvere trascinata dal vento, ancora una volta priva di una voce, facilmente giostrabile, al suo stato molecolare dal tuonare di un'anti-politica in cui può trovare una valvola di sfogo, unico richiamo ad un ordine unitario che eviti di disperdere le forze, capace di compattare il tutto, dando forza e vigore al singolo. Ma ancora una volta senza pedagogia, dando adito all'identificazione nel tutto.

"L'Italia dei partiti", lacerati, anch'essi, lontani da un richiamo democratico, incapaci di edificarsi sopra una base concreta, inseguendo il perenne restauro di una immagine nel tentativo di ottenere un palliativo consenso popolare, dove strategie e bracci di ferro si alternano a strette di mani e accordi.
Tra vecchia e nuova repubblica, tra Prima e Seconda, l'unica cosa che è cambiata sono i volti e i nomi, ma la sostanza è sempre la stessa; nella speranza di ristrutturare tutto nulla è cambiato, lo dimostra il fatto che se in altri paesi, ogni "cambio di guardia", ogni passaggio da una repubblica a un'altra ha portato a significativi cambiamenti costituzionali, in Italia ciò non è avvenuto, dimostrando come la volontà di cambiamento non ruoti attorno alla ristrutturazione di un impianto politico, ma attorno al mantenimento di una parcellizzazione politica.
In Italia sono solo caduti dei partiti, subiti ricostituitisi nel giro di una tornata elettorale, o inglobati in moloch dalle sembianze chimeriche.
E nel gioco di poteri, di cambi di faccia per attrarre un consenso, di minacce, di dissidi interni, di critiche e controcritiche, tutto rimane vacillante; i soliti stratagemmi e trucchi vengono ripetuti, ancora una volta, di fronte ad un pubblico attonito, per lo scempio cui sta assistendo.
Gli stratagemmi vincono sulla democrazia, il cambio di facce segue l'audience del'interesse del pubblico, viviamo una democrazia fatta di volti, di comparse; una politica di spettacolo, con attori e subrette.

Da Monti, a Letta, passando per Bersani, approdando ora a Renzi, l'esautorazione dell'elettorato, il "passaggio di testimone" da un esponente all'altro, volti nuovi che seguono l'eliminazione del predecessore che non attira più le simpatie del pubblico; persone garanti di un "patto di stabilità" con il resto dell'Europa. La prosecuzione della tecnocrazia con accordi e alchimie.

La democrazia degenera in una oclocazia, in cui il potere decisionale viene tracciato da una
oligarchia ma legittimato dal silenzio delle masse; dove le masse decidono di accettare, lamentando, vince l'oclocrazia, vince il silenzio; il momento in cui le masse decidono di accettare, il passo viene compiuto.
Per Pertini sarebbe stato impossibile, impensabile, il ripetersi di una dittatura in senso politico.

Eppure con giochi e sotterfugi, con la delegittimazione del popolo come fonte istituzionale, si assiste di fatto all'esautorazione del fulcro della democrazia dalla sua funzione essenziale: poter decidere. Rimanendo nel silenzio.
La migliore delle dittature è quella che può godere del silenzio del popolo, un popolo che ha perso l'abitudine di far sentire la sua voce.

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