venerdì 16 agosto 2013

I luoghi del narratore. Tra finzione e ricerca.

di Mattia Sangiuliano

Il narratore non è l'autore. Le due parole non vanno confuse o associate indiscriminatamente. Il narratore fa parte della finzione narrativa, è una funzione del testo, è una voce che può essere esterna, quando la vicenda viene narrata in terza persona (narratore eterodiegetico), estranea ai fatti; può essere interna ai fatti quando il narratore è uno dei personaggi che prendono parte alla vicenda (narratore omodiegetico). Quando il narratore (eterodiegetico) si mantiene del tutto estraneo ai fatti può dirsi onniscente: conosce lo sviluppo della vicenda e sa tutto dei suoi personaggi, inoltre il procedimento della 'focalizzazione interna' consente al narratore di assumere l'ottica inevitabilmente parziale del personaggio e ci consente di viverne in diretta le aspettative e le delusioni.
Il narratore, la voce narrante. Un fiume di parole e di emozioni, di sensazioni vergate da un cronista letterario o, se si vuole, meta-letterario proprio per la sua funzione di trascendere l'opera stessa e di saper intrecciare la materia vivente con quella letteraria che intesse.
Il confine tra realtà e finzione, tra dato biografico ed elemento inventato è sempre molto labile; pezzi di vita emergono da personaggi creati come effigi dell'autore stesso, un coro di narratori che parlano di quell'Io che li ha creati. Un esempio per tutti potrebbe essere quello de “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, a quel tratto autobiografico che emerge dal romanzare la propria vita e le proprie vicissitudini, applicandole ad un altro personaggio. Voce del narratore che ripete quello che l'autore detta facendo calare quell'esperire vivente che ha provato sulla propria pelle, sulla materia letteraria. E chissà se, Italo Svevo, scrivendo le vicende di Zeno Cosini, non si sia immaginato egli stesso, in quella Trieste alternativa, letteraria, alle prese con il vizio del fumo, con le donne, con il lavoro, e con la morte del padre del suo protagonista. Magari, descrivendo lo stesso aspetto del protagonista che narra di sé stesso; forse lo stesso Svevo avrà immaginato il proprio volto e il proprio corpo, riflessi in una vetrina della Trieste del suo romanzo.
I luoghi fisici e materiali sono il primo gradino, la prima asperità che la selezione della mente dell'autore deve affrontare. Inventare azioni può sembrare semplici, come anche vergare personaggi, seguire le vicende storiche significa trascrivere un copione già scritto da altri. Ma rappresentare un luogo? Descrivere paesaggi, vie, traverse, edifici, oggetti; tutto quel microcosmo che rappresenta un certo spazio, interno ed esterno, si fa più complesso.
Bisogna vivere in quei luoghi e aver assaporato il calore di quel focolare, per poterne descrivere l'aspetto interiore e i sentimenti che suscita, e che l'autore deve saper far rappresentare, nei limiti delle sue conoscenze, attraverso le parole e le espressioni del narratore. Viene in mente la Roma di Pasolini, città di adozione e grande amore dello scrittore originario di Bologna, così intimamente legato alla capitale da averne adottato persino la lingua, il dialetto romanesco.
Eppure il narratore è capace di andare oltre i confini dello spazio e del tempo, di descrivere cose che l'autore non ha mai visto. Oltre questi confini la struttura e la materia del romanzo incompiuto di Franz Kafka, intitolato America; l'opera più allegra, come la definisce la critica, lontana da molti motivi tipici dello scrittore praghese padre di un male esistenziale che si è rivelato capace di travalicare i confini culturali, abbracciando popoli di ogni regione. Romanzo intessuto descrivendo l'America che lo stesso scrittore non riuscì mai a visitare.
Il narratore vede. Questo è l'elemento sensoriale principe, e descrive ciò che vede, mentre i fatti si svolgono sotto i suoi occhi, al presente o, rievocandoli dal passato, li fa scorrere sotto gli occhi del lettore.
Ancora i luoghi, materia centrale, spazio in cui i protagonisti prendono forma da una macchia indistinta di olio versata quasi distrattamente in una brocca d'acqua, dapprima informe, idrofoba sostanza frammentata in una miriade di piccole bolle disposte caoticamente, per un meccanico e fisico moto interiore (chimica alchemica lenta e inesorabile), naturale, le piccole bolle si fondono in una sagoma che continua la sua evoluzione, divenendo il prototipo di un uomo.
I luoghi del narrato sono l'acqua vitale, il liquido amniotico dei personaggi che, incubati, vivono e respirano, non diversamente da un essere umano concreto.
Una vita speciale, quella dei personaggi alla ricerca di quella kantiana «cosa in sé» oltre e attraverso luoghi che pullulano di vita. Ancora una volta si pensi alla Triste di Ettore Schmitz, alias Italo Svevo, e a quella del suo più grande e, inizialmente (ma talvolta tuttora) incompreso Zeno Cosini, così reale e concreto: fumatore, imprenditore, uomo tutt'altro avvenente, sorta di proto-ipocondriaco per giunta cosciente della propria condizione, delle concrete tare fisiche, nondimeno di quelle puramente immaginarie che pesano come un macigno sulle spalle del personaggio in quanto fenomeni coscienti, in una disamina tutta psicoanalitica e scritta (come si ricorda nell'incipit del romanzo), ma al contempo paradossale e tutta interiore.
Come scrive G. B. Angioletti, «uno di quegli scrittori che denudano i pensieri, che aboliscono la poesia del linguaggio per sostituirvi la pallida poesia dell'intelligenza e dell'istinto»; poesia e intimità «alla ricerca di una verità più intima, più povera e più umana di quella che perseguirono i romantici».
Un mondo interiore e intimo che per questo non sacrifica la realtà esterna in cui il personaggio si muove, quella Trieste mezzo italiana e mezzo europea, delle poesie di Saba.
La Roma solare e grottesca, ridente e disperata dell'opera omnia di Carlo Emilio Gadda, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, offre un altro spaccato di quell'intenzione di descrivere personaggi e luoghi con una intelligenza che vuole letteralmente abolire “la poesia del linguaggio”, analizzando con un minuzioso microscopio pronto a disvelare ogni più vacuo particolare, ingigantendolo sino a farlo diventare straniante, attraverso un fiume di parole di un narratore che si focalizza di volta in volta su un personaggio diverso, prendendone i dettagli più impensabili. Gadda è però in grado di superare quella dicotomia tra autore e narratore; proprio il narratore, attraverso la poetica dell'autore deve esasperare, non risolvere, col suo linguaggio ai limiti della comprensione, il garbuglio dell'intreccio narrativo, poiché la stessa vita è garbuglio e se il noumeno kantiano risulta essere irraggiungibile, forse immanente e intangibile, Gadda riesce a rappresentare quella distanza vertiginosa che separa il mondo da una «cosa in sé» che vi si riflette dentro.
Sulla stessa linea Cesare Pavese dove ancora, l'Io narrante attraversa luoghi di inaudita bellezza per lo scrittore e per i suoi protagonisti, specchio di fanciullezza o delle asperità dell'età matura.
I luoghi sono esperienza sensibile e qualcosa di più, un indescrivibile sentimento che ricorda sempre la libertà del singolo in uno sconfinato spazio esistenziale, oltre tutte le barriere. Il narratore è protagonista nel romanzo “La luna e i falò” ma osservatore nei 29 racconti della raccolta “Feria d'agosto”, voce fuoricampo che racconta le vicende nel loro dipanarsi, tenendo presente i dettami essenziali della poetica pavesiana. L'Io narrante vive, in prima persona, o come partecipe, le vicende narrate; spettatore e al contempo protagonista travolto da quei due ambienti e mondi che si scontrano: la campagna, terra della fanciullezza, dell'innocenza e dei miti di una cultura contadina che permea ogni usanza e ogni sapore della terra; la città, simbolo di maturità, miraggio vagheggiato nella fanciullezza che diviene concreto raggiungimento di quella trasognata libertà, oltre i prati e le colline, dove la lotta per la sopravvivenza si tinge di solitudine e di incontri. E dopo tutte le peregrinazioni durate anni il ritorno, alla terra dei miti, con nuovi occhi, in quei luoghi mutati esteriormente ma in cui sono ancora vive quelle misteriose tradizioni che hanno iniziato alla vita il protagonista-narratore. La voglia di ripartire, il desiderio di libertà, di lasciare tutto alle spalle, un'altra volta, perché in fondo, come Anguilla de “La luna e i falò” pesa la propria condizione di bastardo. Quando si tratta di vagabondare un luogo vale l'altro, l'importante è poter ritornare quando si vuole in quella terra del mito, centro gravitazionale che attrae e respinge in un moto perpetuo, sapendo ma sorprendendosi ancora che le persone e i luoghi mutano ma che le tradizioni non saranno scalfite dallo scorrere del tempo, fornendo la prova di quel noumeno mitico ed evanescente che il narratore ha scorto nei luoghi che ha descritto e in cui si è ritrovato immerso.


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