di Mattia Sangiuliano
Il narratore non è l'autore. Le due
parole non vanno confuse o associate indiscriminatamente. Il
narratore fa parte della finzione narrativa, è una funzione del
testo, è una voce che può essere esterna, quando la vicenda viene
narrata in terza persona (narratore eterodiegetico), estranea ai
fatti; può essere interna ai fatti quando il narratore è uno dei
personaggi che prendono parte alla vicenda (narratore omodiegetico).
Quando il narratore (eterodiegetico) si mantiene del tutto estraneo
ai fatti può dirsi onniscente: conosce lo sviluppo della vicenda e
sa tutto dei suoi personaggi, inoltre il procedimento della
'focalizzazione interna' consente al narratore di assumere l'ottica
inevitabilmente parziale del personaggio e ci consente di viverne in
diretta le aspettative e le delusioni.
Il narratore, la voce narrante. Un fiume di parole e di emozioni, di sensazioni vergate da un cronista letterario o, se si vuole, meta-letterario proprio per la sua funzione di trascendere l'opera stessa e di saper intrecciare la materia vivente con quella letteraria che intesse.
Il narratore, la voce narrante. Un fiume di parole e di emozioni, di sensazioni vergate da un cronista letterario o, se si vuole, meta-letterario proprio per la sua funzione di trascendere l'opera stessa e di saper intrecciare la materia vivente con quella letteraria che intesse.
Il confine tra realtà e finzione, tra
dato biografico ed elemento inventato è sempre molto labile; pezzi
di vita emergono da personaggi creati come effigi dell'autore stesso,
un coro di narratori che parlano di quell'Io che li ha
creati. Un esempio per tutti potrebbe essere quello de “La
coscienza di Zeno” di Italo Svevo, a quel tratto autobiografico che
emerge dal romanzare la propria vita e le proprie vicissitudini,
applicandole ad un altro personaggio. Voce del narratore che ripete
quello che l'autore detta facendo calare quell'esperire vivente che
ha provato sulla propria pelle, sulla materia letteraria. E chissà
se, Italo Svevo, scrivendo le vicende di Zeno Cosini, non si sia
immaginato egli stesso, in quella Trieste alternativa, letteraria,
alle prese con il vizio del fumo, con le donne, con il lavoro, e con
la morte del padre del suo protagonista. Magari, descrivendo lo
stesso aspetto del protagonista che narra di sé stesso; forse lo
stesso Svevo avrà immaginato il proprio volto e il proprio corpo,
riflessi in una vetrina della Trieste del suo romanzo.
I luoghi fisici e materiali sono il
primo gradino, la prima asperità che la selezione della mente
dell'autore deve affrontare. Inventare azioni può sembrare semplici,
come anche vergare personaggi, seguire le vicende storiche significa
trascrivere un copione già scritto da altri. Ma rappresentare un
luogo? Descrivere paesaggi, vie, traverse, edifici, oggetti; tutto
quel microcosmo che rappresenta un certo spazio, interno ed esterno,
si fa più complesso.
Bisogna vivere in quei luoghi e aver
assaporato il calore di quel focolare, per poterne descrivere
l'aspetto interiore e i sentimenti che suscita, e che l'autore deve
saper far rappresentare, nei limiti delle sue conoscenze, attraverso
le parole e le espressioni del narratore. Viene in mente la Roma di
Pasolini, città di adozione e grande amore dello scrittore
originario di Bologna, così intimamente legato alla capitale da
averne adottato persino la lingua, il dialetto romanesco.
Eppure il narratore è capace di andare
oltre i confini dello spazio e del tempo, di descrivere cose che
l'autore non ha mai visto. Oltre questi confini la struttura e la
materia del romanzo incompiuto di Franz Kafka, intitolato America;
l'opera più allegra, come la definisce la critica, lontana da molti
motivi tipici dello scrittore praghese padre di un male esistenziale
che si è rivelato capace di travalicare i confini culturali, abbracciando popoli di ogni
regione. Romanzo intessuto descrivendo l'America che lo stesso
scrittore non riuscì mai a visitare.
Il narratore vede. Questo è l'elemento
sensoriale principe, e descrive ciò che vede, mentre i fatti si
svolgono sotto i suoi occhi, al presente o, rievocandoli dal passato, li fa scorrere sotto gli occhi del lettore.
Ancora i luoghi, materia centrale,
spazio in cui i protagonisti prendono forma da una macchia indistinta
di olio versata quasi distrattamente in una brocca d'acqua, dapprima
informe, idrofoba sostanza frammentata in una miriade di piccole
bolle disposte caoticamente, per un meccanico e fisico moto interiore
(chimica alchemica lenta e inesorabile), naturale, le piccole bolle
si fondono in una sagoma che continua la sua evoluzione, divenendo il
prototipo di un uomo.
I luoghi del narrato sono l'acqua
vitale, il liquido amniotico dei personaggi che, incubati, vivono e
respirano, non diversamente da un essere umano concreto.
Una vita speciale, quella dei
personaggi alla ricerca di quella kantiana «cosa in sé» oltre e
attraverso luoghi che pullulano di vita. Ancora una volta si pensi
alla Triste di Ettore Schmitz, alias Italo Svevo, e a quella del suo
più grande e, inizialmente (ma talvolta tuttora) incompreso Zeno Cosini, così reale e concreto: fumatore, imprenditore, uomo
tutt'altro avvenente, sorta di proto-ipocondriaco per giunta
cosciente della propria condizione, delle concrete tare fisiche,
nondimeno di quelle puramente immaginarie che pesano come un macigno sulle spalle del personaggio
in quanto fenomeni coscienti, in una disamina tutta psicoanalitica e
scritta (come si ricorda nell'incipit del romanzo), ma al contempo
paradossale e tutta interiore.
Come scrive G. B. Angioletti, «uno di
quegli scrittori che denudano i pensieri, che aboliscono la poesia
del linguaggio per sostituirvi la pallida poesia dell'intelligenza e
dell'istinto»; poesia e intimità «alla ricerca di una verità più
intima, più povera e più umana di quella che perseguirono i
romantici».
Un mondo interiore e intimo che per
questo non sacrifica la realtà esterna in cui il personaggio si
muove, quella Trieste mezzo italiana e mezzo europea, delle poesie di
Saba.
La Roma solare e grottesca, ridente e
disperata dell'opera omnia di Carlo Emilio Gadda, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, offre un altro spaccato di quell'intenzione di
descrivere personaggi e luoghi con una intelligenza che vuole
letteralmente abolire “la poesia del linguaggio”, analizzando con
un minuzioso microscopio pronto a disvelare ogni più vacuo
particolare, ingigantendolo sino a farlo diventare straniante, attraverso un fiume di parole di un narratore che si
focalizza di volta in volta su un personaggio diverso, prendendone i
dettagli più impensabili. Gadda è però in grado di superare quella
dicotomia tra autore e narratore; proprio il narratore, attraverso la
poetica dell'autore deve esasperare, non risolvere, col suo
linguaggio ai limiti della comprensione, il garbuglio dell'intreccio
narrativo, poiché la stessa vita è garbuglio e se il noumeno
kantiano risulta essere irraggiungibile, forse immanente e
intangibile, Gadda riesce a rappresentare quella distanza vertiginosa
che separa il mondo da una «cosa in sé» che vi si riflette dentro.
Sulla stessa linea Cesare Pavese dove
ancora, l'Io narrante attraversa luoghi di inaudita bellezza per lo
scrittore e per i suoi protagonisti, specchio di fanciullezza o delle
asperità dell'età matura.
I luoghi sono esperienza sensibile e
qualcosa di più, un indescrivibile sentimento che ricorda sempre la
libertà del singolo in uno sconfinato spazio esistenziale, oltre
tutte le barriere. Il narratore è protagonista nel romanzo “La
luna e i falò” ma osservatore nei 29 racconti della raccolta
“Feria d'agosto”, voce fuoricampo che racconta le vicende nel
loro dipanarsi, tenendo presente i dettami essenziali della poetica
pavesiana. L'Io narrante vive, in prima persona, o come partecipe, le
vicende narrate; spettatore e al contempo protagonista travolto da quei due ambienti e mondi che si scontrano: la campagna,
terra della fanciullezza, dell'innocenza e dei miti di una cultura
contadina che permea ogni usanza e ogni sapore della terra; la città,
simbolo di maturità, miraggio vagheggiato nella fanciullezza che
diviene concreto raggiungimento di quella trasognata libertà, oltre
i prati e le colline, dove la lotta per la sopravvivenza si tinge di
solitudine e di incontri. E dopo tutte le peregrinazioni durate anni il ritorno, alla terra dei miti, con nuovi occhi, in quei luoghi
mutati esteriormente ma in cui sono ancora vive quelle misteriose tradizioni che hanno iniziato alla vita il protagonista-narratore. La voglia di ripartire, il
desiderio di libertà, di lasciare tutto alle spalle, un'altra volta,
perché in fondo, come Anguilla de “La luna e i falò” pesa la
propria condizione di bastardo.
Quando si tratta di vagabondare un luogo vale l'altro, l'importante è
poter ritornare quando si vuole in quella terra del mito, centro
gravitazionale che attrae e respinge in un moto perpetuo, sapendo ma
sorprendendosi ancora che le persone e i luoghi mutano ma che le
tradizioni non saranno scalfite dallo scorrere del tempo, fornendo la
prova di quel noumeno mitico ed evanescente che il narratore ha
scorto nei luoghi che ha descritto e in cui si è ritrovato immerso.
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